Bernardo Bertolucci è stato presente in ogni stagione della mia vita. Ragazzino ancora minorenne, mi intrufolai nel cinema che dava Ultimo tango a Parigi pochi giorni prima che venisse bandito e bruciato. Ci andai da solo (allora non lo facevo mai) perché presentivo quel che sarebbe accaduto. Del resto la morte di Pasolini aveva traumatizzato la mia generazione, ancora ricordo dei compagni di scuola che sghignazzavano «se l’è voluta», «era ora» mentre io sgomento scoprivo l’inestirpabile anima nera, violenta e repressiva del paese che così tanto amavo, l’Italia. Bertolucci era l’Italia che amavo.

Libero, internazionale, d’avanguardia, in viaggio tra comunismo, psicoanalisi, melodramma, mai ideologico, sensuale, perturbante. Italianissimo, di famiglia italianissima, di papà grande poeta italianissimo, la sua radice era piantata in profondità nella pianura padana ma i rami, le foglie, i frutti si sporgevano in territori lontani, in un altrove mai uguale a se stesso. E come sancisce l’antica legge della campagna, i frutti appartengono alla terra in cui cadono. Ricordo di aver visto L’ultimo imperatore a Caracas, in un gigantesco cinema popolare come quelli che c’erano da noi nel dopoguerra, migliaia di spettatori di ogni età, persone umili, famiglie intere comprensive di nonni e bambini a bocca aperta davanti alla storia dell’ultimo imperatore cinese raccontata da un regista di Parma, re tra i re del cinema americano di Hollywood.

Quale altro regista nella storia del cinema ha creato simili vertigini spazio-temporali? In un altro momento della mia vita è stato fondamentale La luna, in un altro La tragedia di un uomo ridicolo. Film ambientati in Italia che sono stati aspramente criticati in patria, ma io ero sempre dalla parte di Bertolucci, in me quei film scavavano in profondità , e oggi non posso andare a Caracalla senza sentire aleggiare la forza dello schiaffo di Tomas Milian al figlio o osservare cos’è diventato il nord che vota Lega senza pensare all’imprenditore interpretato da Ugo Tognazzi. A un certo punto Bertolucci è diventato Bernardo, il destino e la fortuna hanno voluto che potessi conoscerlo personalmente e diventarne amico. Immediatamente è stato chiaro (ma lo è a chiunque lo abbia ascoltato nelle tante occasioni pubbliche in cui generosamente si donava agli ascoltatori) che la sua mente era al tempo stesso il punto d’origine dei suoi film e il territorio in cui essi poi si espandevano. La sua cultura smisurata era una mappa che gli consentiva di viaggiare, più conoscenza = più libertà, equazione da difendere strenuamente in questi anni in cui si sbandiera l’ignoranza come un vessillo.

Era grazie a questa mappa che film diversissimi potevano toccarsi tra loro, incrociando le bandiere rosse di Novecento con le tuniche dorate dei monaci tibetani. Bernardo era aperto agli altri. Gli altri registi non erano rivali, bensì fratelli nel dialogo coi quali egli metteva a fuoco la sua specifica cinematografia. La pittura, il teatro, l’opera, la danza e naturalmente la poesia erano le sue dimore. Ancora negli ultimi anni gravati dall’impossibilità di camminare Bernardo ha continuato a uscire per vedere e ascoltare ogni nuova cosa lo attraesse. Sembrava sempre star bene, sembrava immortale: una tenuta di dignità che è stata la sua ultima grandissima lezione.

Soprattutto, Bernardo ha coltivato il suo spirito, la sua interiorità. Nelle mille e mille volute delle sue esperienze e delle sue conoscenze, nelle miriadi di incontri che hanno costellato la sua vita avrebbe potuto perdersi, ma non gli è successo mai. Perché si coltivava nell’amore ed era perciò lieve, il suo sorriso non era di disincanto ma di incanto (che stretta al cuore ricordarlo sul suo viso al termine del Giovane favoloso), le persone che lo attorniavano (tante, ed è difficile pensarle oggi prive di lui) venivano attratte con gioia nella danza della sua mente e si lasciavano trasportare. Un uomo irripetibile, un maestro.