È morto martedì sera all’età di 91 anni Michail Gorbaciov, l’ultimo presidente costituzionale dell’Unione sovietica. E sicuramente l’unico e l’ultimo ad avere tentato in extremis di riformare quel sistema ma con una apertura che per la portata delle proposte e dell’iniziativa, avrebbe spiazzato l’Occidente, così tanto che i leader occidentali sarebbero diventati incredibilmente suoi presunti fan. Quando Gorbaciov comparve sulla scena il manifesto lo considerò proprio come l’occasion da non perdere per una riformabilità del socialismo reale.

In quei giorni a metà anni Ottanta sulle nostre pagine si scatenò anche su di lui l’immaginario satirico dell’allora nostro Stefano Benni che propose scherzosamente una interpretazione della grossa macchia violacea che il nuovo segretario del Pcus aveva sulla fronte, scrivendo che era «una voglia di Coca Cola». Non era una voglia di Coca Cola.

In realtà Gorbaciov, che pure era stato sponsorizzato come segretario nel 1985 da Andropov e dall’apparato del Pcus, era un comunista riformatore che voleva ancora salvare l’idea di trasformazione socialista ma coniugandola alla democrazia avanzata, voleva la glasnost e la perestrojka, una ventata di verità, apertura, libertà e trasparenza per modificare dall’interno un regime di chiusura, omertà e potentati. Aggredendo subito la sovrastruttura politica e istituzionale – la Cina di Deng farà il contrario.

Con l’adesione al capitalismo ma diretto da Partito iper-centrale e immodificabile. Il nuovo segretario del Pcus cominciò dal 1986, intanto mettendo subito in discussione il ruolo del partito e della stessa figura del segretario che non sarebbe dovuta essere più centrale rispetto alla società. Quasi a prosecuzione della Primavera di Praga voluta nel 1968 da Dubcek – che infatti riabilitò – e repressa dai carri armati del Patto di Varsavia. Gorbaciov propose per questo il «»Congresso dei deputati del popolo, un organismo di nuova rappresentatività della società civile sovietica, riattivando insieme alla tematica dei diritti umani una memoria storica critica – furono gli anni della nascita di Memorial – sostanzialmente anti-stalinista (fu riabilitato Bucharin).

Su terreno internazionale avviò il ritiro dell’Armata rossa dall’Afghanistan, dall’avventura disastrosa voluta da Brezhnev nel 1979 che fini dieci anni dopo nel 1989, e pose fine alla dottrina Brezhnev che prevedeva l’ingerenza armata dell’Urss nei Pesi satelliti; di fronte al persistere dei blocchi militari in Europa, c’era ancora il patto di Varsavia – chiuderà i battenti nel 1995 – e l’Alleanza atlantica che c’è ancora, avanzò la proposta di una «Casa comune europea dall’Atlantico agli Urali» in una prospettiva di pace, disarmo e di integrazione di popoli e sistemi; aprì lo spiraglio dell’unificazione della Germania, terribile e difficile per un Paese massacrato dalla furia nazista nella Seconda guerra mondiale, consapevole che il Muro di Berlino non poteva durare e infatti crollò nel 1989, ma avendo l’assicurazione americana e atlantica che la Nato – che Gorbaciov criticò duramente nel 2014-2015 proprio per la crisi Ucraina dopo quella in Georgia – mai si sarebbe allargata a est; trattò veramente con il presidente Usa Ronald Reagan l’eliminazione totale delle armi strategiche nucleari.

Col senno di poi tanti detrattori, interni ed esterni della sua politica, dichiarano ora che questa mastodontica trasformazione gorbacioviana era una pia illusione perché fallì. Certo Gorbaciov fallì, abbandonato da tutti. L’Urss con l’avvio della decentralizzare del potere, precipitò nella faglia dei nuovi nazionalismi, l’un contrapposto all’altro e si aprì il vaso di Pandora dell’assalto ai beni della proprietà collettiva e socialista dello Stato sovietico e va da sé che i responsabili di partito di questa vasta proprietà avrebbero fatto man bassa: così sono nati gli oligarchi, sulla sofferenza e deprivazione della società ex sovietica.

Gorbaciov venne destituito nell’agosto del 1991 da un avventato golpe fallimentare dei duri del regime e, peggio, venne «salvato» dal suo peggior nemico, Boris Eltsin. Fu l’inizio della fine dell’Urss e di Gorbaciov, a fine 1991 venne ammainata la bandiera rossa dal Cremlino.
Eltsin rilanciò la mai tramontata centralità nazionalista della Russia dentro l’Unione sovietica morente insieme alla sua personale. Un processo farsa di sostituzione, fortemente sponsorizzato dall’Occidente (spudoratamente finanziato dagli Usa ormai a guida Bush sr. nelle elezioni del 1996)- che nel 1993 lo avrebbe portato a bombardare il parlamento russo auspicato da Gorbaciov e ad avviare a fine anni Novanta alla presidenza e alla leadership del Paese l’ex agente del Kgb, Vladimir Putin.

Certo un fallimento. Ma soprattutto un’occasione persa non solo dall’Unione sovietica, ma dal mondo intero a partire dall’Europa. Perché a guardar bene il presente misero che ci circonda, buio, senza spiragli di prospettiva e aperture, il ritorno delle troppe guerre nel mondo, della stessa Guerra fredda e dei conflitti armati nel cuore d’Europa, la tragedia dell’Ucraina, l’aggressività imperiale da «grande Russia» di Putin, l’annichilimento dell’Europa senza ruolo, leadership e politica estera, l’allargamento provocatorio ed esplosivo della Nato a est dopo avere inglobato tutti i Paesi dell’ex Patto di Varsavia, guardando questa devastazione, questa sì da «fine della storia», quanto sarebbe stato meglio che la stagione «illusoria» e « visionaria» di Gorbaciov avesse vinto e si fosse trasformata in realtà?