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La legge Zan e le ragioni del femminismo della differenza

La legge Zan e le ragioni del femminismo della differenzaUna performance dell’artista Senga Nengudi

Ddl Zan La rivolta delle donne contro la cancellazione del proprio sesso non va sacrificata alla sacrosanta tutela delle persone omosessuali, bisessuali, transessuali e transgender

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 21 maggio 2021

Il ddl Zan introduce i delitti di istigazione a delinquere e compimento di atti discriminatori e violenti fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Finanzia politiche contro la violenza legata all’orientamento sessuale e all’identità di genere e istituisce la Giornata contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia, in cui sono organizzate, anche da parte delle amministrazioni pubbliche e nelle scuole, iniziative per promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione e a contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivate dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere.

Per sesso, spiegano le definizioni di cui la legge è corredata, si intende quello biologico; per identità di genere la percezione che una persona ha di sé come uomo o donna, anche se non corrispondente al sesso biologico; per ruolo di genere qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse all’essere uomo o donna; per orientamento sessuale l’attrazione emotiva o sessuale nei confronti di persone dello stesso sesso, di sesso opposto o di entrambi i sessi.

Con questa terminologia e queste definizioni il disegno di legge richiama teorie secondo le quali la distinzione tra i due sessi femminile e maschile si risolve in costruzioni sociali che si ripercuotono sugli individui come una gabbia repressiva, il ‘binarismo sessuale’, che esclude e stigmatizza chi in tale binarismo non si riconosce. Di qui il valore dell’autopercezione, e il suo significato contestativo: la possibilità di dirsi maschio femmina o nessuna delle due cose – l’identità di genere – indipendentemente dal corpo che si ha, romperebbe il giogo del binarismo. A quest’ultimo, autoritario, tende a essere associata, in questo ordine di idee, la differenza sessuale.

In Italia esiste un pensiero femminista radicale noto come pensiero della differenza, molto vitale. Questo pensiero ha lavorato per far emergere la soggettività femminile, che consiste appunto nella differenza. Differenza rispetto a cosa? Rispetto al soggetto neutro della storia e del pensiero, per esempio l’Hegel che «si mette nella posizione di un soggetto universale mentre in realtà parla secondo l’esperienza di un soggetto maschile». E cosa sarebbe questa differenza? Il femminismo radicale ‘essenzializza’ le donne, sacralizza per caso il ruolo materno? No, la differenza non è un ‘ruolo’ o un ’comportamento’, perché non è una cosa.

È una qualità, un processo, un divenire: è l’atto del differire, che scompagina i modelli ereditati, mette al mondo qualcosa che non era prima previsto e che non si può sapere mai che cosa sarà. E per iniziare a differire, occorre un primo atto di disobbedienza: scoprire che il corpo in cui una è nata, proprio quel corpo così a lungo squalificato e così spesso asservito, è invece intelligente, è il veicolo di molte esperienze, è una parte di noi che ci permette di dire «quel che ci risulta», di dire la nostra, a modo nostro: compone la nostra soggettività.

C’è stato dunque nel tempo un impegno appassionato affinché le donne si sentissero autorizzate a parlare partendo dalla loro esperienza, onde questa, e non quella del soggetto neutro, entrasse a comporre i modi comuni di pensare, di vivere, di giudicare; impegno per restituire unità alla soggettività femminile, che il patriarcato spezzava tra sesso e costrutti sociali, e così consegnava all’irrilevanza.

«Noi siamo e abbiamo un corpo e questo avere ed essere struttura il nostro porci nei confronti degli altri e del mondo»; nessuna e nessuno può partire da sé, dire il mondo come lo vede, se accetta di stare «alle determinazioni della sua natura o della sua condizione che sono precostituite: prima delle determinazioni esterne c’è lei, c’è un soggetto pensante capace di ragionare e concludere in base a quello che le risulta» (Luisa Muraro 1994).

Le donne hanno o non hanno (finalmente) il diritto di parlare ciascuna per sé? E dopotutto, le donne esistono? Dopo decenni di lotta al patriarcato il dubbio si ripropone. Torna in voga il modello-Hegel, che il ddl Zan presuppone: il corpo è un nulla – un dato biologico, in effetti, non pensa e non sente – da cui si può prescindere con le sole operazioni della mente (l’autopercezione o identità di genere).

L’unità corpo-mente del pensiero femminista è un’idea polemica e critica quanto meno alla pari – lo si concederà – dell’idea di identità di genere. Quest’ultima, per molte persone, ha un valore di liberazione, ma per molte altre è la prima idea ad avere quel significato. Non sta al legislatore stabilire se il corpo è solo biologia, o se esso è senso, storia e intelligenza perché tutto questo è, per ognuna e ognuno, la materia viva del nostro proprio esistere.

Ma non si può ignorare che promuovendo azioni educative orientate a insegnare alle bambine che il loro sesso è solo biologia il legislatore si mette contro l’azione delle tante donne che porgono alle bambine l’idea opposta, affinché diano a se stesse valore e possano essere ciò che desiderano.

La storia della rivolta femminile contro la cancellazione del proprio sesso non va sacrificata alla sacrosanta tutela delle persone omosessuali e bisessuali, transessuali e transgender. Questa la si può ottenere semplicemente nominandole, senza ricorrere alle parole-chiave di modernissime teorie, dall’antichissimo sapore patriarcale.

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