Come un disco rotto da tre giorni, da quando ha annunciato di voler trasferire l’ambasciata a Gerusalemme, il presidente americano Donald Trump – dal suo account Twitter, Potus – non fa che ripetere il suo slogan più celebre sul fatto che sta facendo l’America «great again», ma a dire il vero sembra che la scelta presa non gli stia fornendo alcun lustro aggiuntivo. Anzi, dopo l’isolamento al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, ieri al termine di una riunione d’emergenza, è arrivata la controffensiva diplomatica della Lega Araba: chiederà all’Onu di adottare una risoluzione che respinga la decisione di Trump su Gerusalemme.

L’ANNUNCIO DAL CAIRO in diretta tv, significativamente, è stato affidato al ministro degli Esteri palestinese Riad al-Maliki. «Il riconoscimento da parte del presidente americano Trump di Gerusalemme quale capitale d’Israele toglie agli Stati Uniti la qualità di mediatore del processo di pace e lo priva del suo ruolo nel Quartetto», ha affermato tra l’altro al-Maliki.

Del resto a causa del trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv, il vicepresidente statunitense Mike Pence non troverà ad attenderlo al Cairo a fine mese non solo Abu Mazen e il grande imam di Al Azhar, lo sceicco Ahmed al Tayyeb, ma neanche patriarca copto ortodosso egiziano Teodoro II: incontro cancellato.

La marginalizzazione internazionale di Trump si riflette intanto a specchio in un nuovo protagonismo mediorientale dei leader europei che hanno respinto la simbolica decisione di Trump. In particolare il ministro degli Esteri britannico Boris Johnson, in visita a Teheran proprio in queste ore e il presidente francese Emmanuel Macron, che nelle stesse ore si sta dando un gran daffare tra una dichiarazione congiunta con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan,  ieri, e un faccia a faccia oggi a Parigi, con il suo omologo tunisino Beji Caid Essebsi, che già da programma comprenderà anche la questione di Gerusalemme.

MACRON E ERDOGAN, fa sapere l’agenzia di stampa ufficiale turca Anadolu, hanno avuto un lungo colloquio telefonico, i cui contenuti sono stati riferiti nel dettaglio. I due si sarebbero confrontati sui reciproci timori per le conseguenze della decisione del presidente Usa, definendola di comune accordo «preoccupante per la regione». Pertanto avrebbero convenuto di continuare a lavorare per convincere Trump a tornare sui suoi passi, passando poi ad altri dossier come il Kazakistan, l’Azerbaijan e il Libano.

Oggi e fino a martedì sarà la volta del partner tunisino. E qui, oltre a rinsaldare i legami storici in previsione del summit del 12 dicembre a un anno dall’accordo di Parigi sul clima (dal quale Trump pure si è autoescluso), Essebsi e Macron avranno modo di parlare non solo della nuova crisi israelo-palestinese innescata da The Donald ma anche, en passant, dell’inclusione della Tunisia nella lista nera dei paradisi fiscali da pare dell’Ecofin.

BORIS JOHNSON A TEHRAN non è da meno, dove si trova con il delicato compito di riannodare le relazioni economiche, commerciali e bancarie con la Repubblica degli ayatollah, bruscamente interrotte con le sanzioni di Londra contro Teheran nel 2011, il conseguente assalto all’ambasciata britannica della capitale iraniana e il ritiro dello staff diplomatico, tornato in sede, timidamente, solo nell’agosto del 2015, dopo la firma dello storico accordo sul nucleare da parte di Obama. Oggi che Trump continua a ripetere di voler cancellare quell’accordo siglato dal suo predecessore, Johnson, in pieno stile Brexit, è andato a confermare al suo omologo Mohammad Javad Zarif e al presidente Hassan Rouhani che Londra rimarrà invece impegnata all’intesa del 2015.

La Gran Bretagna deve farsi perdonare anche la massiccia vendita di armi all’Arabia Saudita che le usa in Yemen, come del resto l’Italia. Ma per accreditarsi come partner economico anche con Tehran, può oggi con più credibilità dire che non seguirà pedissequamente gli Usa di Trump, così come non lo ha fatto all’Onu su Gerusalemme.

LE MANIFESTAZIONI della collera sunnite per GerusalemmeAl Quds inneggiavano, ad esempio a Baghdad, ancora ieri all’Arabia saudita. Ma è ambiguo il ruolo del principe ereditario Mohammed bin Salman e ambigui, secondo il New York Times, sono i suoi contatti con il genero di Trump, l’ultra sionista Jared Kushner, coetaneo di sua maestà «MbS».