Cultura

La kermesse del libro che rimuove la crisi

La kermesse del libro che rimuove la crisi

Salone del libro Si è chiuso ieri il Salone del libro. La protesta dei precari per i mancati pagamenti di alcune case editrici come Castelvecchi e Isbn. È polemica per l’ospite d’onore del prossimo anno, l’Arabia Saudita, dove la libertà di parola è sconosciuta

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 19 maggio 2015

«Il Salone del libro ti entusiasma. Stai qui, chiuso nel Lingotto per quasi una settimana, incontrando tante persone che ti chiedono notizie su un autore, discutono con cognizione di causa di romanzi e saggi. Pensi che l’Italia sia un paese di lettori appassionati e competenti. Poi torni a casa, e scopri che è un’illusione». È una frase di una ragazza che lavora in un ufficio stampa di una casa editrice di quelle che contano. Lavora con passione, ma sconsolata ripete che la crisi è dura, con vendite in diminuzione e prezzi di copertina in salita, creando così un vortice dove la riduzione delle vendite è compensata dall’aumento del prezzo dei libri. Un vortice che alimenta la crisi del settore piuttosto che «governarla».

I dati di affluenza del Salone del libro di Torino, che si è concluso ieri con la conferma che l’ospite d’onore del 2016 sarà l’Arabia Saudita (scelta che ha suscitato prese di posizione negative visto l’assenza di democrazia del paese), hanno fatto tirare un sospiro di sollievo ai suoi organizzatori. Buono il numero dei biglietti venduti, mentre la città piemontese è stata invasa studenti provenienti da tutta Italia. Ma il successo della kermesse libraia fa parte di quell’illusione denunciata da chi ogni giorno cerca di promuovere autori e libri.

Affermare che l’editoria italiana è in crisi è confermare il già noto. Negli ultimi anni hanno chiuso molte piccole case editrici, mentre il fenomeno della concentrazione procede a velocità sostenuta. E se l’acquisizione di Rizzoli da parte di Mondadori sarà confermata, anche nel bel paese la torta del libro vedrà tre, quattro gruppi editoriali che fanno la parte del leone, lasciando il resto a una costellazione di piccoli editori che fanno scouting di autori italiani sconosciuti; oppure traducendo scrittori e saggisti che hanno qualcosa di nuovo da dire, per poi vederli emigrare verso porti più solidi economicamente.

Per l’associazione dei piccoli editori Odei il rischio è una riduzione drastica della bibliodiversità con conseguente omologazione tematica dei contenuti. Una previsione realistica, se si scorre con attenzione il programma degli appuntamenti al Salone del libro 2015, dove il flusso è interno a un generico, ma evidente punto di vista mainstream. Questo non vuol dire negare il fatto che Feltrinelli, Einaudi, Mondadori, Rizzoli e il gruppo Mauri Spagnol continuino a pubblicare ancora testi di qualità. Feltrinelli, ad esempio, persiste nel pubblicare opere di autori importanti, sapendo che profitti non ne verranno. Stampare le opere di Foucault dà prestigio alla casa editrice milanese, ma non è detto che i costi siano ripagati dalle vendite. Lo stesso si possono dire delle altre major. L’editoria italiana, altro dato evidente, continua a tradurre molto, consentendo all’Italia di non essere tagliata fuori dai flussi culturali europei, statunitensi, africani, asiatici. Anche in questo caso, le case editrici non ci guadagnano. Ne sanno qualcosa negli uffici della milanese Mimesis, che sta stampando saggi «impegnativi» che «fanno» catalogo – l’ultimo è stato Miseria del mondo di Pierre Bourdieu -, ma con pochi ritorni economici. Lo stesso si può dire di Raffaello Cortina, 66thand2nd, Alegre edizioni. O Codice edizioni, che ha pubblicato Questa idea della vita di Stephen Jay Gould e Superfici ed essenze di Emmanuel Sander e Douglas Hofstadter, quest’ultimo autore del celeberrimo Godel, Escher Bach: due libri importanti, ma è certo che le vendite saranno limitate, visto il prezzo di copertina comunque alto.

Di fronte una situazione di concentrazione oligopolistica, l’editoria italiana ha licenziato e fatto leva su un esercito di traduttori, editori, revisori, promotori, autori pagati al minimo e senza diritti sociali. Sia chiaro, la precarietà è stata da sempre una caratteristica della produzione culturale. Una realtà precaria descritto, quasi mezzo secolo fa, Luciano Bianciardi, ma in quel periodo i «lavoratori culturali» erano una minoranza. Adesso invece sono la maggioranza. Quel che emerge nelle editoria italiana sono compensi bassi, nessuna certezza nella continuità di reddito e pagamenti mai puntuali
L’unico momento che ha interrotto il flusso indifferenziato di uomini e donne che spulciavano i titoli dei libri esposti, è stata infatti l’azione di un gruppo «Volontari involontari» che raccoglie traduttori, editor e anche autori: si sono presentati allo stand di Castelvecchi, chiedendo il pagamento arretrato delle loro collaborazioni. Molti di loro erano in attesa da mesi di ricevere i loro compensi. Un’azione di protesta che ha assunto rilevanza perché Castelvecchi si è sempre presentata come una casa editrice che punta alla qualità del prodotto.

Nell’algido linguaggio aziendale, la Castelvecchi viene infatti considerata un editore di progetto, cioè che non sempre segue la bronzea legge della domanda e dell’offerta. Dunque, il fatto che paghi poco e male i «collaboratori», come denunciato da «Volontari involontari», ha il sapore della beffa. Nel linguaggio della critica dell’economia politica, questo significa che l’editoria si fonda basa questo significa che i salari sono compressi all’inverosimile. La precarietà è dunque un fattore strutturale, non una bizzarria o la mancanza di etica di questo o quell’editore.

Per il momento Castelvecchi – che ha recentemente pubblicato due importati volumi sulla storia del lavoro firmati da Stefano Musso – ha pagato alcuni collaboratori, che amaramente hanno commentato il fatto così: «pagano chi alza più la voce, ma non prendono impegni per gli altri che ancora aspettano».
La vicenda di Castelvecchi, che fa parte di un piccolo gruppo editoriale che vede marchi «storici» come Arcana, Ombre, Elliot, ha reso evidente ciò che molti precari «intellettuali» vivono giorno dopo giorno. E a Torino è riemersa anche una vicenda che ha coinvolto la milanese Isbn. Anche in questo caso, traduttori, editor e autori denunciano il mancato pagamento della casa editrice, diretta da Massimo Coppola fino a una manciata di mesi fa. Coppola, che ha fortemente voluto una nuova edizione di gran parte degli scritti proprio di Luciano Bianciardi, ha scritto una lettera aperta nella quale spiega il perché i pagamenti ci sono stati dopo che uno scrittore inglese Hari Kunzru ha chiesto conto del mancato pagamento dell’anticipo dovuto a sua moglie, autrice di Knock Out pubblicato da Isbn.
Storie che hanno spopolato in Rete, con commenti al vetriolo dei precari dell’editoria e imbarazzate difese dei piccoli editori insolventi. Ma quel che è emerso nella sua radicalità sono i bassi compensi e nessuna tutela di chi collabora con le case editrici. Perché le «storie» emerse nel week end torinese riguardano i piccoli editori: nulla al confronto, per quanto riguarda il numero dei precari coinvolti, di quanto accade nelle grandi case editrici. Il nodo da sciogliere riguarda dunque la concentrazione oligopolistica, il rischio della fine della bibliodiversità e la precarietà strutturale dei rapporti di lavoro nel settore. Per la bibliodiversità servirebbe che i piccoli e indipendenti editori si mettano in rete per contenere costi di distribuzione e stampa, favorendo la crescita anche di punti vendita alternativi a quelli dominanti; oppure usando la Rete per non sottostare ai costi di intermediazione. Ma la scommessa da giocare è che questa rinnovata presa di parola dei precari non sia sommersa dal flussi di titoli mandati alle stampe. E che l’editoria, sia grande che piccola, sia mainstream che indipendente, non debba continuare a reggersi su precarietà e bassi salari.

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