Il trattamento di Alfredo Cospito da parte dello Stato italiano è, al di là delle valutazioni squisitamente giuridiche che sono complicate e difficili, un’eccezione alla vita, cosa ben più grave dell’eccezione alla legge. È un trattamento eccezionale ed eccessivo. La giustizia non deve entrare in contraddizione con il buon senso del vivere. La ragion di Stato (un ragionamento teorico che diventa norma comportamentale) non ha alcuna supremazia etica sulla cultura di vita della comunità di cittadini costruita sulla parità degli scambi, sulla profondità e libertà delle relazioni affettive e sul senso della misura. Queste tre condizioni possono sembrare un ideale che non è mai stato raggiunto. Tuttavia in loro assenza lo Stato si riduce a dispositivo impersonale di potere del tiranno sui sudditi. Più sono, invece, soddisfate, più la Polis è una comunità di diversi ma pari (Aristotele) e lo Stato è democratico nella sostanza e non solo formalmente.

Il reato di «strage politica», che include anche l’attentato alla sicurezza dello Stato, pone una questione di civiltà giuridica: la validazione etica delle leggi, al di là della loro logica normativa. È possibile equiparare sul piano della pena, usando la formula dell’“attentato”, un reato realmente commesso e l’intenzione di commetterlo, senza danneggiare l’equilibrio tra «giusto» e «ingiusto» (tra proporzione e sproporzione) che garantisce il vero senso di sicurezza dei cittadini?

L’applicazione del 41 bis alla detenzione di Cospito, che rischia la condanna definitiva all’ergastolo ostativo («fine pena mai»), è del tutto sproporzionata alla forza organizzativa e alla pericolosità del suo agire. Sembra diretta più contro il suo pensiero che contro le sue potenziali azioni future. Davvero questo pensiero rappresenterebbe una minaccia per uno Stato democratico forte?

La spiegazione più ragionevole dell’accanimento nei confronti di Cospito sta nella natura della contestazione anarchica dello Stato. Essa non prende di mira una specifica organizzazione statale con l’ambizione di sostituirla con un’altra: contesta la legittimità dello Stato in quanto tale, non gli riconosce il diritto di esistenza.

A questa posizione ideologica, che è una visione del mondo, si oppone storicamente un’altra che è alla base dell’assolutismo: lo Stato è legittimato da sé e a priori e non attraverso la legittimità delle sue azioni (di cui sono garanti il rispetto dei valori etici e il consenso democraticamente ottenuto e espresso dei cittadini). Nello Stato democratico questa ideologia, precedente il suo avvento, sopravvive in tutte le sue forme organizzative in cui si presume che l’efficacia dell’azione sia un fine.

La presenza nello Stato di apparati autocratici finalizzati, in fin dei conti, alla propria riproduzione permanente, indebolisce seriamente la democrazia.

La fa abitare da un senso di vuoto, corrispondente ai luoghi del suo distacco dal fluire della vita vera, e la rende vulnerabile ai conflitti e alle contestazioni dei cittadini. Usare la legge a scopo difensivo, invece di superare i propri irrigidimenti e automatismi, è un regalo della democrazia all’autoritarismo.

La giustizia non eccede e non è un’ideologia. La sconfitta del senso della misura nella sua amministrazione mostra tutta la difficoltà di trarre insegnamento dall’ hubris di Creonte: l’affermazione del pensiero endogamico, indifferenziante e omologante, dell’oikòs patriarcale nella gestione della Polis, l’esatto contrario di quanto una tradizione politico-filosofica, che ha letto male Sofocle, ha sempre sostenuto. La democrazia rispetta i suoi nemici (questo rispetto è la sua forza), non infierisce su di loro quando sono caduti. Non cerca la vendetta, punisce la violazione dei limiti che rendono possibile la convivenza comune, ma nel farlo non cade nell’errore di superarli a sua volta.