La Gerusalemme imprigionata
Tutti ostaggi I palestinesi hanno perso o, per timore, lasciato il lavoro nella parte ebraica della città, ragazze e ragazzi non escono più, la sorveglianza della polizia è soffocante e le intimidazioni frequenti anche contro gli attivisti per la pace israeliani
Muhanna, Abed e Huda sono giovani e come i loro coetanei nel resto del mondo vorrebbero passare gran parte del tempo libero in strada, assieme agli altri amici. E fino a qualche settimana fa non perdevano occasione per farlo.
Ora preferiscono incontrarsi in casa e stare in giro il meno possibile per le strade di Gerusalemme. «Se sei un palestinese è meglio che resti a casa» ci spiega Abed «la polizia ti ferma in continuazione e se vai nella zona ebraica e ti riconoscono come un palestinese (gli israeliani, nda) diventano ostili e talvolta aggressivi».
Muhanna aggiunge che è meglio tenersi a distanza anche da quei due-tre locali frequentati da israeliani e palestinesi nella zona di Via Giaffa e del Mamilla Mall. «Il problema non sono i proprietari ma i clienti – ci dice – inclusi alcuni di quelli che dicono di essere di sinistra, ora non amano più vederci lì. Corri il rischio che qualcuno ti urli in faccia che sei un terrorista o che provi a buttarti fuori dal locale con la forza. Allora ce ne stiamo a casa, va bene lo stesso».
STORIE SIMILI in questi giorni te le raccontano tanti palestinesi a Gerusalemme, soprattutto quelli che abitano nella città vecchia o a cavallo tra le due città, ebraica e araba. E naturalmente coloro che lavorano, in molti casi lavoravano, nella parte occidentale ebraica.
Più di tutto c’è la pressione delle forze di polizia che, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele, si è fatta eccezionale sui residenti palestinesi. Arresti, avvertimenti, minacce esplicite e le «maniere forti» sono la regola.
Qualcuno dei nostri interlocutori ci ricorda i due giovani uccisi dal fuoco dei poliziotti a Silwan, ai piedi delle mura antiche. «Hanno il grilletto facile e sparano ad altezza d’uomo appena fai una mossa che giudicano sospetta», avverte Ahmad, proprietario di un minimarket nella città vecchia dove l’atmosfera che si respira nei quartieri musulmano e cristiano è pesante. Al tramonto si svuotano. Diversi negozi sono chiusi e riaprono solo per il venerdì delle preghiere.
Nelle viuzze che dalla Porta di Damasco portano nell’area della Spianata della moschea di Al Aqsa, la presenza di poliziotti è triplicata rispetto a qualche settimana fa. «L’altro giorno hanno arrestato e portato via un giovane che stava seguendo alla tv le notizie da Gaza sui canali arabi», prosegue il commerciante. «I poliziotti gli chiedevano urlando di spiegare perché fosse tanto interessato a quelle notizie, lui ha risposto che stava solo ascoltando la cronaca da Gaza e loro l’hanno portato via ugualmente».
Che il clima si sia fatto «molto difficile» lo sostiene anche Oneg Ben Dror, attivista ebrea di Free Jerusalem, gruppo della sinistra israeliana più radicale. È passato un mese (dal 7 ottobre) ma i palestinesi sono sempre visti (dagli israeliani, nda) tutti, senza eccezioni, come potenzialmente pericolosi – ci dice Ben Dror -, non pochi fra loro preferiscono rinunciare al lavoro (nella zona ebraica della città, ndr) pur di non avere problemi. Oppure sono stati mandati via dai datori di lavoro».
L’attivista sottolinea che sono presi di mira anche gli ebrei che non rinunciano a denunciare le violazioni dei diritti dei palestinesi. «So di un paio di fermi tra attivisti e soprattutto di gravi intimidazioni. Tanti di noi ricevono telefonate minacciose nel cuore della notte, in apparenza di militanti della destra estrema che sanno tutto di te, della tua vita, del tuo lavoro e delle tue opinioni. E ti lasciano capire che sei sorvegliato tutto il tempo».
Un clima pesante che in superficie è visibile solo in parte.
PILASTRO del conflitto in Medio Oriente, annessa unilateralmente a Israele contro le risoluzioni internazionali, in questi giorni Gerusalemme ad un primo sguardo appare relativamente calma. È rimasto sorpreso chi si aspettava nel settore orientale manifestazioni e proteste continue per i bombardamenti israeliani con migliaia di vittime civili a Gaza.
Non si dice sorpresa invece l’analista Diana Buttu. «I motivi di questa calma, che è solo apparente, sono numerosi – ci dice – la repressione è quello più evidente. Le punizioni inflitte o minacciate non hanno precedenti, gli abitanti palestinesi in un attimo possono perdere diritti e beni».
Buttu spiega che la crisi in corso non è paragonabile a quella di due anni fa, quando la lotta contro le espulsioni di 28 famiglie dal quartiere di Sheikh Jarrah e le violazioni della Spianata della moschea di Al Aqsa, unirono i palestinesi con cittadinanza israeliana, quelli di Gerusalemme, della Cisgiordania, di Gaza e quelli della diaspora. «Allora fu protagonista la società civile, tante persone comuni si sentirono coinvolte, i temi al centro delle proteste attirarono l’impegno non solo dei palestinesi. In questo caso stiamo parlando di una guerra vera e propria», afferma l’analista.
MEIR MARGALIT, un docente universitario e storico attivista contro la demolizione delle case arabe a Gerusalemme, sostiene che per i palestinesi è ancora più difficile far sentire la loro voce in questo momento delicato, a causa della forte dipendenza dal lavoro nella zona ebraica della città e in Israele. «Il dominio (israeliano) su Gerusalemme Est cominciato nel 1967, la disuguaglianza e un accesso iniquo alle risorse, hanno creato negli ultimi anni condizioni economiche e occupazionali di interazione tra i due gruppi di popolazione ma sempre a netto svantaggio dei palestinesi», spiega Margalit.
LA SEPARAZIONE di Gerusalemme Est dal resto dei Territori occupati, aggiunge il docente, aggravata dal Muro, dalle barriere e dai posti di blocco israeliani, ha significato la perdita del lavoro per migliaia di palestinesi che prima andavano in Cisgiordania e che ora possono trovare un’occupazione solo in Israele. «La loro libertà di movimento, i diritti umani e le opportunità economiche e occupazionali sono stati gravemente compromessi per tutte queste persone», sottolinea Margalit. «Allo stesso tempo – conclude – i bisogni e i servizi per i palestinesi di Gerusalemme continuano ad essere ignorati. La repressione e l’ostilità che vediamo oggi rivela quanto fosse ipocrita la presunta politica di integrazione della popolazione araba di cui parlavano le autorità comunali e di governo. Israele continua a trattare i palestinesi di Gerusalemme come degli intrusi che non appartengono a questa città e a questa terra».
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