La forma di governo parlamentare è la più adatta ai tempi
Quirinale e dintorni Il modello Giorgetti – Draghi capo dello Stato e simultaneamente capo del governo tramite un avatar – va respinto. È un impianto che nega la connotazione fondamentale del ruolo del capo dello Stato, esplicitamente definito rappresentante dell’unità nazionale dall’art. 87 della Costituzione. Come tale, non potrebbe essere titolare di poteri di governo in senso proprio, né direttamente né per interposta persona
Quirinale e dintorni Il modello Giorgetti – Draghi capo dello Stato e simultaneamente capo del governo tramite un avatar – va respinto. È un impianto che nega la connotazione fondamentale del ruolo del capo dello Stato, esplicitamente definito rappresentante dell’unità nazionale dall’art. 87 della Costituzione. Come tale, non potrebbe essere titolare di poteri di governo in senso proprio, né direttamente né per interposta persona
Il semi-presidenzialismo di fatto tratteggiato dal ministro Giorgetti ha contribuito a mettere in luce il conflitto tra Lega di lotta e Lega di governo. Il consiglio federale del partito si è chiuso con un formale sostegno a Salvini, ma il dualismo di linea politica rimane, come traspare dalla stampa locale lombarda e del Nord-est. Forse siamo a un armistizio, e comunque di quel che accade in casa leghista possiamo felicemente disinteressarci. Invece, il tema della collocazione futura di Draghi, del rispetto delle architetture istituzionali e della Costituzione, ci riguarda tutti.
Il modello Giorgetti – Draghi capo dello Stato e simultaneamente capo del governo tramite un avatar – va respinto. È un impianto che nega la connotazione fondamentale del ruolo del capo dello Stato, esplicitamente definito rappresentante dell’unità nazionale dall’art. 87 della Costituzione. Come tale, non potrebbe essere titolare di poteri di governo in senso proprio, né direttamente né per interposta persona.
A chi sottolinea l’ampio sostegno popolare per i presidenti, si può obiettare che ciò appunto accade per la natura super partes che viene percepita come loro connotazione, perché non assimilati a un governo in carica. A chi ricorda i presidenti interventisti – come Napolitano – si risponde che da sempre i costituzionalisti sanno che i poteri presidenziali si espandono o si comprimono a fisarmonica, in funzione inversa rispetto alla forza e solidità dei soggetti politici. A King George, come oggi a Mattarella, un no avrebbe messo o metterebbe un freno. Uno studioso di vaglia come Calise (Il Mattino, 4 novembre) menziona la “extrema ratio della promulgazione dissenziente”. Appunto. È una promulgazione che i dubbi sostanziali non hanno fermato. Nella specie, ammettiamo pure che Draghi, andando al Quirinale, riesca a governare per interposta persona fino al voto politico. E dopo?
Meglio allora un semipresidenzialismo da regolare riforma? Da decenni si aggira nel paese il fantasma dell’uomo solo al comando. L’elezione diretta del capo del governo, possibilmente corredata di una solida maggioranza numerica nelle assemblee elettive anche grazie a leggi elettorali maggioritarie, ha sedotto molti. Il mantra a sostegno è che il premier elettivo è elemento unificante, in grado di superare la frammentazione dei sistemi politici semplificandoli, e di portare efficienza ed efficacia nell’azione di governo.
Ma è davvero così? Che un capo del governo direttamente eletto sia davvero unificante dipende dal contesto in cui si inserisce. In società stabili, imperniate su una ampia middle class, con sistemi tendenzialmente bipartitici portatori di programmi in larga misura simili, la best practice di un tempo suggeriva che si governasse dal centro. Un’elezione diretta del capo del governo poteva ben essere considerata una scelta ottimale. Ma in società che si frantumano per l’aumento esponenziale delle diseguaglianze, l’impoverimento della classe media, il destrutturarsi del sistema politico, l’elezione diretta del capo del governo può produrre divisione e contrapposizione. E si governerà dalle estreme.
Così è stato, ad esempio, negli Stati Uniti con l’elezione di Trump, che ha diviso il paese come mai nella storia. Così è stato in Gran Bretagna, dove il modello Westminster reca una sostanziale elezione diretta del premier. Johnson ha conquistato il soglio, ma rischia l’unità del Regno. Mentre Macron in Francia ha una solida maggioranza numerica in parlamento, ma naviga in acque basse con i sondaggi e vede il malessere del paese manifestarsi nelle strade e nelle piazze. L’ingegneria politica e istituzionale non cancella i conflitti. La forma di governo parlamentare è la più adatta al tempo in cui viviamo, soprattutto se accompagnata da assemblee – in virtù di una buona legge elettorale – ampiamente rappresentative, in cui i conflitti possono essere mediati e portati a sintesi.
Soffriremo a lungo per il tormentone su Draghi al Colle, anche e soprattutto perché sappiamo che le motivazioni delle varie ipotesi in campo non si sottraggono per nessuno alla bassa cucina dell’interesse spicciolo di parte. Certo, Draghi potrebbe istantaneamente fermare il chiacchiericcio, dichiarando che il Colle non gli interessa. Ha sempre evaso le domande sul punto. Ma vogliamo proprio prendercela con lui perché non fa il Cincinnato? Anche se, a ricordare bene, Cincinnato poi torna … .
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