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La fine della legge elettorale: da strumento a posta in gioco

La fine della legge elettorale: da strumento a posta in giocoReferendum 4-12-2016: le operazioni di voto in un seggio. In alto l’esultanza al comitato del No – Lapresse

L’approdo instabile al Rosatellum Si potrebbe cominciare dalla riformare degli istituti di democrazia diretta e dei regolamenti delle camere

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 2 dicembre 2017

A un anno dal referendum che ha affossato anche la legge elettorale – l’Italicum – che della riforma costituzionale renziana era il naturale complemento, ci ritroviamo con un nuovo sistema elettorale, di cui si è detto e si dovrà continuare a dire tutto il male possibile. Tutto inutile, dunque? La vittoria del “No” non ha lasciato alcun segno, come si sarebbe indotti a ritenere se ci abbandonassimo ad una sorta di disfattismo sconsolato, così frequente a sinistra? No, non è così. L’esito del referendum ha bloccato la via che si era pericolosamente imboccata: quella di una crescente torsione plebiscitaria della nostra democrazia anche per ciò che riguardava le regole elettorali. È stato un grande risultato e tale rimane; ma, come prevedibile, non poteva essere risolutivo.

La cecità politica del Pd ha portato ancora una volta alla scelta di un sistema elettorale disegnato sulla base delle presunte (molto presunte, invero) convenienze del momento. L’ennesimo capitolo di una lunga storia: l’Italia continua a godere di un poco invidiabile primato, tra le democrazie cosiddette mature: nessun altro paese, nell’ultimo quarto di secolo, ha cambiato così frequentemente la propria legge elettorale. Il sistema elettorale è una questione sempre aperta: più che definire le regole della competizione politica, appare esso stesso come una posta del gioco politico.

QUESTA PRECARIETÀ congenita, questa incapacità di definire regole elettorali che riescano ad acquisire un minimo di stabilità nel tempo, sono il segno inequivocabile di una perdurante e progressiva destrutturazione del sistema politico italiano: sono il sintomo del fallimento delle idee, delle dottrine, degli schemi ideologici con cui la crisi della prima Repubblica è stata affrontata, ma ancor prima letta e interpretata. La scelta di un sistema elettorale si rivela sempre, in un modo o nell’altro, come una scelta tra modelli di diversi e alternativi di democrazia.

Se la legge Mattarella ricercava ancora un punto di equilibrio tra la visione maggioritaria e quella proporzionale, configurando un sistema che poteva ancora essere definito effettivamente «misto», la storia successiva ci consegna un panorama in cui domina da un lato il plebiscitarismo, – una visione della democrazia come investitura del capo – e dall’altro l’annichilimento della rappresentanza politica. Il fallimento delle forzature plebiscitarie di cui la legge Calderoli era espressione è apparso ben presto chiaro; eppure, abbiamo assistito, con l’Italicum, ad una sorta di coazione a ripetere, fortunatamente travolta dal referendum, ma che trova ancora qualche nostalgico cantore.

E veniamo così all’oggi. Nel dibattito di questi mesi, non è emersa una vera riflessione sulle ragioni di fondo che dovrebbero ispirare una riforma elettorale, che possa finalmente sottrarre il tema allo sguardo miope degli interessi contingenti. Quale che sia l’esito delle elezioni, anche quest’ultima legge elettorale appare destinata a essere rimessa in discussione, tanto palesi sono le sue incongruenze. Il dibattito resterà aperto. E allora, la domanda da cui si dovrà ripartire è la seguente: posta la condizione critica della democrazia italiana, e dato il basso livello di legittimazione democratica delle sue istituzioni, quali obiettivi primari è necessario perseguire?

NON BASTA PIÙ ripetere la formula rituale «contemperare governabilità e rappresentanza». In una condizione di grave delegittimazione delle istituzioni, la ricostituzione di una legittima e forte rappresentanza politica è la premessa per una qualsivoglia effettiva governabilità.

Ed è una premessa ineludibile, almeno se vogliamo dare al governo il valore di un esercizio del potere democratico fondato su un reale consenso. Certo, se assumiamo che oggi la democrazia può assumere solo la forma di un atto puntuale di autorizzazione al comando, e che ai cittadini basta chiedere di svolgere solo il ruolo di giudici-spettatori, chiamati ad acclamare o ripudiare il leader di turno, allora vanno bene anche sistemi elettorali che ci garantiscano un vincitore che abbia le mani libere per cinque anni. Ma sarà poi, costui, in grado veramente di governare, di esprimere – nel senso più forte – una capacità di governo legittima e riconosciuta?

Questo obiettivo, ricostruire la legittimità della rappresentanza parlamentare, va di pari passo con un’altra finalità: adottare un sistema elettorale in grado di incentivare – incentivare, non determinare – la ricostruzione di partiti, e di un sistema di partiti, degni di questo nome. Per questo lungi dall’essere una sciagura, il ritorno a un sistema limpidamente proporzionale – con una soglia di sbarramento non aggirabile al 4 o al 5 per cento – può rappresentare il solo terreno su cui almeno provare a invertire un radicale processo di delegittimazione delle istituzioni democratiche, e a migliorare lo «spirito pubblico» che si respira in Italia.

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