Maeve di Cj Leede, tradotto da Gaja Cenciarelli e pubblicato dalla nascente casa editrice Mercurio Books (pp. 328, euro 19), è una storia horror ambientata a Los Angeles e in particolare nel quartiere «La strip», che la protagonista Maeve conosce a menadito e per cui ha una sorta di culto. L’attaccamento alla città deriva dall’amore che sua nonna Tallulah ha per L.A. e dall’adorazione che Maeve ha per l’anziana donna. Dalla storia si intuisce che a un certo punto della sua vita, forse dopo aver rinunciato a una borsa di studio alla prestigiosa università di Stanford, Maeve va a vivere con la madre di suo padre che è stata una diva di Hollywood in gioventù. Le due si riconoscono subito: in loro si nasconde un lupo che deve essere «nutrito». All’inizio del romanzo Maeve è convinta di avere ancora due anni in cui tutto resterà esattamente com’è: sua nonna vegeterà in coma, ma sarà ancora viva e la sua amica Kate lavorerà ancora con lei prima di riuscire nel suo intento e sfondare a Hollywood.

LE DUE INTERPRETANO in un grande parco di divertimenti la principessa di ghiaccio, Frozen, e sua sorella. Maeve, a differenza di Kate, non ha nessun’altra ambizione, se non quella di poter fare quello che per lei è il più bel lavoro del mondo: «io vivo per questo. La loro fiducia mal riposta». La stranezza della protagonista, la sua fissazione per determinati libri, in particolare Storia dell’occhio di Georges Bataille (1928), si tramuta in azione quando Maeve compie il primo omicidio, almeno il primo di cui chi legge viene a conoscenza. C’è una ragione, però, per cui in questo caso decide di uccidere, anche se nell’ottica di Maeve la vera colpa è il fatto che il suo atto efferato possa avere un movente: perché le donne devono avere un motivo per essere violente? Si chiede a un certo punto. E anche: «dov’è la ferocia delle donne? Dov’è la barbarie?».

La ragazza si infuria alla sola idea che all’origine di un atto violento compiuto da una donna ci debba essere un torto subito, una sofferenza che le è stata ingiustamente inferta, per questo nel corso della storia compirà anche torture e uccisioni di persone nei confronti delle quali non ha nessuna ragione di vendetta. Ciò che spinge Maeve a uccidere non è rabbia, quanto più una sorta di istinto naturale che non le lascia scelta: «non puoi essere quello che sei e sopravvivere».

DA NOTARE che una delle torture che infligge prima di fare scempio del cadavere di una malcapitata è la famigerata inserzione di un topo nel corpo della donna, per giunta vergine, di cui scrive il marchese de Sade e che compare in una scena di American Psycho.

Il contrasto tra il ruolo di principessa, così amato da Maeve, e l’efferatezza con cui uccide e tortura le sue vittime si inscrive in un immaginario horror riconoscibile e che trova anche nel leit motiv della bambola composta da pezzi di corpo umano, che compare e scompare misteriosamente nella sua vita, un altro esempio nonché un altro riferimento letterario.

L’associazione tra le donne e le bambole è anche un luogo comune: le donne sono bambole quando sono belle e hanno un viso dolce come quello di Maeve, quando sono inermi, inerti, senza volontà… Esattamente questo sembra essere l’inferno da cui sfugge la protagonista del romanzo la quale crede invece che confondere il corpo con l’io sia «uno spreco di vita e di cervello». In questa storia senza nessuna possibilità né desiderio di redenzione, anche se Derek, il ragazzo di cui Maeve suo malgrado si innamora, sarebbe perfetto per lei, ovviamente il sentimento non è abbastanza, neanche quando ti fa, letteralmente, perdere i denti…