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La duplice funzione, economica e sociale, del reddito di cittadinanza

La duplice funzione, economica e sociale, del reddito di cittadinanzaBanconote – LaPresse

RdC Banca d’Italia ha stimato che a fronte di una caduta del Pil dell’8,9%, il calo più contenuto dei redditi, si deve all’aumento dei trasferimenti, tra i quali anche RdC

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 10 agosto 2022

Finite, forse, le discussioni sulle alchimie elettorali, è ora che a sinistra si dica chiaramente cosa si intende fare del Reddito di Cittadinanza. Nonostante l’impatto positivo dimostrato nel ridurre la povertà, questo strumento rischia oggi più che mai di essere travolto dal furore ideologico di chi lo ritiene non solo inefficace ma anche fonte di sprechi e clientele alimentate dall’assistenzialismo della peggiore specie.

Non basta a giustificarne l’utilità il milione di persone (500 mila famiglie) sottratte alla povertà assoluta certificato dall’Istat, né il contributo alla tenuta dei redditi in una delle fasi più difficili dal dopoguerra con lo scoppio della pandemia e la caduta drammatica del Pil. Banca d’Italia ha stimato che a fronte di una caduta del Pil dell’8,9%, il calo più contenuto dei redditi, nell’ordine di 2,8 punti percentuali in termini nominali (2,6 in termini reali), si deve all’aumento dei trasferimenti: ammortizzatori sociali, misure emergenziali e anche Reddito di Cittadinanza.

Se c’è una cosa che dovrebbe averci insegnato la pandemia è che di ammortizzatori sociali e sussidi contro la povertà, non si può fare a meno, perché svolgono una funzione di stabilizzazione sociale e anche economica fondamentale, tanto più in periodi di crisi. Domandiamoci piuttosto che cosa ne sarebbe stato della questione sociale senza gli interventi di salvaguardia del reddito. Le criticità del Reddito di Cittadinanza sono ormai chiare e le 10 proposte di modifica avanzate dalla Commissione Saraceno puntavano a una sua revisione per renderlo più inclusivo e anche più vicino al lavoro.

I fragili equilibri all’interno della coalizione che sosteneva il governo Draghi non hanno permesso di dare seguito a queste proposte. Ma potrebbe anche andare peggio: dalla minaccia di referendum per abolirlo tout court, alle richieste di lavoro coatto nei settori dove le imprese lamentano mancanza di manodopera, come è stato nel caso degli albergatori.

A ben vedere dietro queste posizioni non c’è una valutazione tecnica delle criticità di questo strumento, ma una idea di moralità che applicata ai poveri scade sempre nella colpevolizzazione. Purtroppo i poveri esistono e sono in crescita, così come i working poor, in Italia ai livelli massimi in Europa (l’11,8% contro il 9,2% della media europea). Se questo è il problema, le risorse andrebbero utilizzate per introdurre veri in-work benefits, ovvero crediti fiscali che aumentano la retribuzione netta, mano a mano che il salario sale fino a un livello che in genere corrisponde a un multiplo del salario minimo.

Naturalmente perché questo succeda e si eviti il rischio di incentivare l’abbassamento dei salari (perché integrati dall’in-work benefit) è necessario il salario minimo legale. L’introduzione di un salario minimo dovrebbe andare di pari passo con l’istituzione di in-work benefit di questo tipo e con una revisione del Reddito di Cittadinanza volta a incentivare, non penalizzare come è nella sua configurazione attuale, il cumulo tra lavoro e sussidio.

Un altro insegnamento che dovremmo trarre da questa come da altre crisi e anche dalle criticità che hanno caratterizzato il Reddito di Cittadinanza è che il workfare, ovvero la spinta ad accettare qualunque proposta di lavoro, non garantisce di per sé un inserimento stabile nel mercato del lavoro se la domanda di lavoro non c’è o è stagnante come in molte aree interne del paese, non solo al Sud ma anche del Nord.

E non basta dire esternalizziamo ai privati o, peggio, stringere ancora di più sulle condizionalità. Il problema non è la moralità dei percettori o l’inefficienza del pubblico. Il problema è la domanda di lavoro che non c’è, se non al prezzo di occupazioni mal pagate o al nero che spesso è l’unica alternativa alla disoccupazione. Sono questi i principali ostacoli all’inserimento lavorativo di beneficiari di sussidi.

Se non si vuole scadere nella colpevolizzazione che tanto piace alle destre, vanno ricercate altre strade, a partire da un maggiore protagonismo dei territori e degli attori sociali nella costruzione di partenariati per l’emersione e la creazione di nuova domanda di lavoro. Lontano da visioni coercitive dei sussidi, questo significa valorizzare il potenziale di crescita e creazione di nuova occupazione che viene dalle reti civiche e dal terzo settore, da vedere non come bacino di lavoro gratuito sussidiato dal Reddito di Cittadinanza ma come spazio di innovazione e co-produzione tra istituzioni, imprese, attori sociali per promuovere la creazione di nuovo lavoro, non un lavoro purchessìa, ma occupazioni di cui c’è bisogno per rispondere ai molteplici bisogni veri, vecchi e nuovi, dei territori in cui viviamo.

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