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La disinformazione nella proposta Boeri

La disinformazione nella proposta Boeri

Pensioni Dietro l’idea di «equità» pensionistica avanzata dal presidente dell’Inps un’operazione intenzionale di ridimensionamento del welfare a tutto svantaggio di giovani, operai e lavoratori precoci

Pubblicato quasi 9 anni faEdizione del 10 dicembre 2015

Molta disinformazione nel dibattito sulla proposta («Non per cassa, ma per equità») presentata da Tito Boeri, presidente dell’Inps: reperire risorse per il bilancio pubblico correggendo le pensioni superiori a determinati importi (nelle diverse ricostruzioni si va da 2000 a 3500 euro mensili, non si sa se lordi o netti) in senso «attuariale», cioè decurtandole in rapporto alla differenza fra quanto si riceve e ciò che si sarebbe ricevuto se le prestazioni fossero state interamente calcolate con il sistema contributivo. (qui il pdf della proposta)

Le risorse così risparmiate verrebbero utilizzate per finanziare il ripristino della flessibilità in uscita (ma con forti penalizzazioni mantenute per chi dovesse praticarla), mentre all’introduzione di un reddito minimo di 500 euro per gli ultra55enni che non trovino lavoro dovrebbe corrispondere non il ricorso alla fiscalità generale ma il riordino e il riassorbimento di gran parte della spesa assistenziale (tra cui le pensioni sociali e l’integrazione al minimo).

Tralascio pur importanti questioni costituzionali che vanno ben al di là della diatriba sui «diritti acquisiti», perché sarebbe la prima volta che si interverrebbe con una così pesante «retroattività» sulle pensioni in essere, non su quelle future ancora da formare come si fa tramite le misure di deindicizzazione (anch’esse, però, non pacifiche per la Corte). E mi soffermo sul significato da attribuire a questa operazione di disinformazione che per molti aspetti appare intenzionale, certo non casuale.

Essa si manifesta in vari fatti concomitanti. Non si chiarisce che i Fondi speciali confluiti nell’Inps con i bilanci già in rosso (compreso il Fondo Dirigenti d’azienda) perpetrano una pratica di «saccheggio» storico compiuto ai danni del Fondo dei Lavoratori Dipendenti, gli unici che hanno sempre avuto un equilibrio tra contributi elevati (da decenni già al 33%) e prestazioni contenute e che, con i loro attivi, hanno sistematicamente finanziato i disavanzi di tutte le altre gestioni.

Non si dice che una stretta applicazione alle prestazioni pregresse del principio di equità «attuariale» – peraltro non richiesta dalla legge 335 che saggiamente parla di equità «semiattuariale» – dovrebbe riguardare in primo luogo i lavoratori autonomi, ai quali dal 1990 si applicò il sistema retributivo dei dipendenti senza che venisse corrispondentemente adeguata la aliquota contributiva (allora al 10% e rimasta modesta fino ad anni recenti), il basso livello storico della quale ha fatto sì che a tutt’oggi siano essi a detenere il 30% delle pensioni integrate al minimo.

Si sorvola, oltre che sulle difficoltà del ricalcolo «attuariale» (quale valore assegnare ai contributi figurativi, con quale affidabilità calcolare i coefficienti di trasformazione per il passato, ecc.), sulla circostanza che i più colpiti, proprio perché meglio protetti dal precedente sistema retributivo (ma per ragioni di contesto storico – legale, economico e sociale – non per l’illegale appropriazione di un «iniquo regalo») sarebbero, oltre agli autonomi, gli ex dipendenti pubblici e coloro che hanno cominciato a lavorare molto presto maturando in età precoce i requisiti per l’anzianità (leggi «classe operaia»), mentre proprio per quelli con alte pensioni potrebbe rivelarsi minore il gap fra quanto si è versato e quanto si è ricevuto (in conseguenza dell’alta crescita nominale del Pil fino agli anni ’90).

Si fa confusione sulle funzioni proprie di un sistema pensionistico, che sono precipuamente «assicurative» (debbono, cioè, assicurare dai rischi di una caduta del proprio tenore di vita in età anziana, quando si cessa di lavorare) e solo secondariamente «redistributive», queste ultime spettando primariamente da un lato alla tassazione, dall’altro ai servizi e alla spesa assistenziale non a caso da finanziare con la fiscalità generale (quando invece la proposta in questione istituisce il reddito minimo per gli ultra55enni a carico dell’assistenza, con ciò ledendo il principio generale e operando una regressione in quella corretta distinzione tra previdenza e assistenza che fin dagli anni ’80 si è voluto con lungimiranza identificare e praticare).

Alla fine, anche mediante l’impropria assimilazione del debito previdenziale al debito pubblico tout court, si giunge a riattivare un ingiustificato clima di allarme sulla tenuta del sistema pensionistico italiano – nell’ultimo ventennio talmente emendato dalle indubbie distorsioni del sistema retributivo, riformato e stabilizzato, da essersi guadagnato i ripetuti riconoscimenti di severe istituzioni internazionali come la Commissione europea e il Fmi – un allarme che sembra alimentato a bella posta per legittimare le condizioni di un nuovo intervento che, a dispetto di tutte le declamazioni contro la «cassa» e in favore dell’«equità», non sarebbe una «riforma» ma un ulteriore, rovinoso «taglio».

Dunque, non ci si può non chiedere se dietro tutta questa disinformazione e confusione non ci siano nodi strategici e slittamenti teorici più di fondo.

Siamo in presenza, infatti, dell’evocazione di una rottura della connessione tra questioni di «eguaglianza» e questioni di «povertà» che storicamente ha contraddistinto la costruzione dei welfare state europei, il rispetto della quale imporrebbe che la redistribuzione egualitaria infragenerazionale avvenisse coinvolgendo nella solidarietà tutti i redditi, non solo quelli pensionistici, mediante un innalzamento della progressività delle imposte e un rafforzamento (non un indebolimento come sta avvenendo per la Tasi) di quelle patrimoniali (molto più progressive).

Per non parlare degli effetti assai più marcatamente egualitari che avrebbe l’imposizione, oltre che di «minimi salariali», di «tetti massimi» alle retribuzioni, in particolare di amministratori apicali e top manager, come suggerisce il grande economista Anthony Atkinson.

 

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Perché il professor Boeri e il governo Renzi – amante del semplicismo del ricorso a bonus di varia natura – non avanzano proposte di tal fatta?

Quanto all’eguaglianza intergenerazionale, la proposta di Boeri mantiene del tutto aperta la vera questione lasciata irrisolta dal processo riformatore degli anni appena trascorsi: le esigue prestazioni pensionistiche destinate in futuro ai giovani di oggi, in conseguenza della drammatica mancanza di lavoro e/o della sua precarietà, frammentazione, intermittenza, per sopperire alle quali bisognerebbe pensare all’istituzione di una «pensione di base», su cui innestare la pensione contributiva, e fare maggiore ricorso a istituti quali la contribuzione figurativa, riscoprendo la logica di equità «semiattuariale» propria della 335, ben diversa da quella strettamente «attuariale» ora invocata.

Il punto è che il presupposto cruciale su cui Boeri basa la sua proposta è l’idea che la battaglia per l’«eguaglianza», entro cui naturalmente ricomprendere anche quella per la «povertà», vada ridimensionata come finalità fondamentale del welfare state, nell’illusione di poter così meglio perseguire il contrasto alla «povertà» in quanto tale.

Ma se si avvalora il ridimensionamento dell’«eguaglianza», diventerà inevitabile costruire un welfare «solo per i poveri» – tipico postulato neoliberista –, spingendo all’opting out i ceti medi, per i quali il connubio contributi elevati/prestazioni ridotte renderebbe conveniente la fuoriuscita dal sistema pubblico verso soluzioni private.

Con ciò la privatizzazione, fin qui cacciata dalla porta con il mantenimento del sistema pensionistico pubblico a ripartizione (modificato solo nel calcolo – ora contributivo – e non nell’ispirazione universalistica), rientrerebbe surrettiziamente dalla finestra.

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