Siamo alle ultime ore di una campagna elettorale sui generis, di cui nella memoria non troviamo l’eguale. Segnata da uno scioglimento improvviso e in larga parte inatteso delle camere, ristretta nel tempo breve tra la fine delle vacanze estive e il voto, oppressa dalle speranze perdute di ritrovare una normalità dopo la pandemia e da una consapevolezza crescente della crisi ancora maggiore che viene dagli eventi in Ucraina, persino afasica davanti a timori di guerra che mai avremmo pensato di rivivere in Europa. Ma, piaccia o non piaccia, dobbiamo sapere che il 25 settembre è un tornante nella storia del paese. Dopo, potremmo trovarci in condizioni peggiori e in un’Italia molto diversa da quella che abbiamo conosciuto.

Si poteva evitare? In parte, sì. Ad esempio abbandonando il Rosatellum, probabilmente in qualche punto incostituzionale, e con certezza non in grado di esprimere in modo equilibrato lo spettro politico del paese, o di affidare a elettrici ed elettori la scelta effettiva degli eletti. Distorsioni che la sinergia perversa con lo sciagurato taglio dei parlamentari ancora accresce. Con l’effetto ultimo che avremo un parlamento di nominati, debole e poco o nulla rappresentativo, proprio quando il distacco del paese reale dalla politica segnalato dall’astensione sembra poter raggiungere i suoi livelli più alti.

Il dopo 25 settembre vedrà dunque un assetto istituzionale ancor più indebolito. È cruciale che il popolo sovrano corregga per quanto possibile gli errori fatti dalle forze politiche, prevenendo ulteriori danni. Che sono resi evidenti dai programmi e dalla campagna elettorale dell’assemblaggio elettorale della destra.

Sarebbe troppo chiamarlo coalizione, visto che sono divisi praticamente su tutto, dalla flat tax allo scostamento di bilancio alle sanzioni alla Russia al rapporto con l’Europa al contrasto alla crisi economica e sociale alle riforme e alla loro tempistica alla scelta anticipata dei ministri. Ma questo ci dice solo che una destra vincente governerà poco o male, non che eviterà altri danni al paese. Il peggio del peggio.

Preoccupa quel che si è visto nel parlamento europeo.
La destra che potrebbe domani occupare Palazzo Chigi ha certificato l’Ungheria come sistema democratico solo perché il presidente è eletto direttamente. Giustamente l’assemblea con ampia maggioranza ha affermato il contrario. Nella storia troviamo autocrati che ottengono o conservano il potere sull’onda del voto popolare.

Vicende come l’involuzione del sistema statunitense e l’assalto a Capitol Hill dimostrano che non si può mai deflettere dalla difesa delle fragilità che anche le democrazie consolidate indubbiamente hanno. In Usa l’investitura popolare diretta del presidente ha consentito ed anzi favorito la degenerazione, contribuendo a spaccare il paese in modi che sarà né facile né breve superare.

Il pensiero istituzionale della destra italiana è banalmente elementare. Dall’elezione diretta del presidente viene dall’oggi al domani il paese ideale. Manca una riflessione adeguata sull’architettura istituzionale complessiva in cui la scelta dovrebbe inserirsi. Quali poteri? Quale rapporto con il governo? E con il parlamento? Quali contrappesi? Quale ruolo in ordine alla Corte costituzionale, o la magistratura? E soprattutto, come si pensa che il presidente eletto possa non essere considerato di parte?

Certo, dove c’è il voto popolare diretto la prima affermazione dell’eletto è che rappresenterà tutti. Ma è un omaggio all’ovvietà. Così non era per Trump e ora per Biden, così non era e non è per Macron, e ancor meno per gli autocrati elettivi in Europa o in America latina.

Noi abbiamo anche un problema specifico. Dal voto può uscire un paese spaccato politicamente, con la destra egemone nel nord e in parte nel centro, cedente al sud. Se ci fosse un’elezione diretta, come potremmo evitare un presidente eletto da una maggioranza prevalentemente nordista, o sudista? Potrebbe mai quel presidente davvero rappresentare l’unità nazionale, come recita la Costituzione?

Prima o poi, una parte o l’altra si ritroverebbe in piazza. Nelle società frammentate e radicalizzate di oggi, è illusorio che un presidente eletto sia fattore di unità. E qui addirittura si vorrebbe con quel presidente bilanciare la frammentazione derivante dall’autonomia differenziata. È un uso strumentale delle riforme istituzionali come arma di distrazione di massa.

Studiare, bisogna. E soprattutto votare, ma non l’invotabile.