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La desertificazione antropica lascia vastissime aree della Sardegna nell’abbandono

La desertificazione antropica lascia vastissime aree della Sardegna nell’abbandonoSpopolamento nel nuorese – L’Ortobene.net

Declino demografico In cinque anni (2016-2021) sono andati persi oltre 50mila residenti, calcola uno studio delle Acli: «I territori si svuotano, con interi paesi a rischio di estinzione nel giro di pochi decenni»

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 12 agosto 2021

La principale causa degli incendi in Sardegna si chiama spopolamento. I territori aggrediti dalle fiamme sono anche zone in cui le campagne, le montagne, i boschi si sono progressivamente svuotati di presenza umana. Una desertificazione antropica che lascia vastissime aree dell’isola esposte all’abbandono e all’incuria, con conseguenze sempre più gravi sugli gli equilibri ambientali, a cominciare appunto da una crescita esponenziale del rischio che il fuoco divori tutto.

La situazione è fotografata in tutta la sua drammaticità da un report dell’“Osservatorio sulle migrazioni regionali in Sardegna” delle Acli, reso noto pochi giorni fa. Sono numeri che confermano un continuo processo di invecchiamento e di decremento della popolazione. I dati, che riguardano i cinque anni dal 2016 al 2021, rivelano che, ad eccezione di un cluster di centri in Gallura e in Ogliastra che vivono di turismo, i comuni sardi che hanno un saldo naturale (la differenza tra nati e morti su base annua) positivo sono poche eccezioni: dieci su un totale di 377. «La Sardegna – spiegano i ricercatori Acli – è indebolita da un cronico malessere demografico, dalla disoccupazione in generale e da quella giovanile in particolare, da un indice di vecchiaia e da una denatalità che continuano a crescere, da una età media che non smette di avanzare. I territori si svuotano, con interi paesi a rischio di estinzione nel giro di pochi decenni».

Insomma, la Sardegna sta vivendo una fase di declino demografico che accelera con una velocità preoccupante. Nel 2021, per la prima volta dopo molti anni, si è rotta la soglia psicologica di quota 1.600.000 abitanti: al 1° gennaio la popolazione era infatti di 1.598.225 abitanti. «Il trend demografico – si legge nel report delle Acli – si è caratterizzato per qualche anno per una diminuzione media annua della popolazione residente pari a circa 5.000 unità. In particolare, -5.003 nel 2016 e -4.959 nel 2017, confermando un dato in percentuale pari a -0,30% sul totale al 1° gennaio per gli anni 2016/2017. Ma nell’ultimo triennio (2018-2021) si è registrato un trend medio quasi doppio, tanto che in cinque anni (2016-2021) sono andati persi oltre 50.000 residenti. Con la pandemia, poi, nel 2020 al calo demografico naturale si è aggiunta una mortalità ulteriore, dovuta sia direttamente al virus sia a un contesto sanitario bloccato». La diminuzione di popolazione interessa, dal 2018 al 2021, anche la città metropolitana di Cagliari e la Gallura, dove si è sempre osservato un incremento dei residenti costante negli anni.

Anche in queste aree si registra, nell’ultimo quinquennio, una forte riduzione di popolazione per saldo naturale. Ed è finito l’effetto ciambella, cioè l’emigrazione dalle zone interne verso la fascia costiera, non perché la migrazione dall’interno sia conclusa, ma perché anche le città costiere perdono popolazione: nel 2020 solo tre comuni hanno un saldo positivo oltre le due persone in più».

Un quadro drammatico che ha effetti devastanti sui territori, sia in termini di declino economico e di tenuta del tessuto sociale sia in termini ambientali. Nessuna prevenzione efficace contro gli incendi, ma anche contro le alluvioni rese sempre più frequenti dal mutamento climatico, sarà possibile senza invertire una tendenza allo spopolamento che porta alla desertificazione umana e naturale dei territori. E non bastano semplici politiche per il lavoro, che pure sono assenti.

Serve il superamento di un modello di sviluppo legato al turismo, all’edilizia e ai poli industriali sulle coste (petrochimica, alluminio, centrali elettriche a carbone). Serve un massiccio spostamento di risorse e di progettualità dalle aree metropolitane alle zone interne, dove vanno rimesse al centro le attività tradizionali, pastorizia e agricoltura. E serve il superamento di logiche coloniali che subordinano l’isola a interessi economici esterni.

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