La coscienza collettiva e il niente del Senato
Ddl Zan Il movimento che si è creato in sostegno del progetto di legge ha dato vita a una vera e propria politica di riconoscimento: essenziale, come ci insegnava la luminosa Letizia Gianformaggio, per portare la differenza nell’uguaglianza e per realizzare la missione più alta che il diritto possa avere nella storia: far sentire la persona radicata in e per ciò che è, permetterle di essere sua e sottrarla alla violenza che si alimenta solo dell’urgenza ontologica di distruggere
Ddl Zan Il movimento che si è creato in sostegno del progetto di legge ha dato vita a una vera e propria politica di riconoscimento: essenziale, come ci insegnava la luminosa Letizia Gianformaggio, per portare la differenza nell’uguaglianza e per realizzare la missione più alta che il diritto possa avere nella storia: far sentire la persona radicata in e per ciò che è, permetterle di essere sua e sottrarla alla violenza che si alimenta solo dell’urgenza ontologica di distruggere
All’indomani del voto del Senato, a Milano, la città dove vivo, migliaia di persone si sono spontaneamente radunate sotto l’Arco della Pace per dire che no, non finisce qui. Quanto accaduto nell’ultimo anno è per molti aspetti straordinario. A partire da alcuni progetti di legge sui crimini d’odio, si sviluppa improvvisamente un dibattito alto, che libera dalla nicchia accademica concetti come identità e ruolo di genere e fa comprendere che sono caratteristiche essenziali della persona, non necessariamente correlate a un sesso o a un orientamento sessuale predefinito; libera la voce di coloro che non si riconoscono nel binarismo di genere e nella sovrastruttura sociale che impone, dalla nascita, agli uomini un destino di competizione, aggressività e forza e alle donne una perenne, insuperabile subalternità: un eterno confronto con ciò a cui devi rinunciare, ciò a cui non puoi aspirare, ciò che proprio non ti puoi permettere e ciò per cui dovrai comunque sentirti in colpa. Un dibattito che consente di nominare, finalmente, l’origine e la causa di quella violenza maschile che dieci anni di cieca repressione penale non sono riusciti nemmeno a scalfire, per quello che è: patriarcato, tossico, violento e infiltrato nelle famiglie e nelle istituzioni di questo Paese, senza distinzione di estrazione sociale, culturale o di orientamento politico.
Un momento importantissimo di questo dibattito è stato il confronto con le ragioni dei femminismi, giustamente preoccupati di non far passare un concetto di genere “neutro” che potesse cancellare la differenza sessuale e la potenza causale di quella differenza: la potenza delle donne, che per prime hanno elaborato il concetto di genere come narrazione socio-culturale dominante volta a giustificare un soggiogamento originario, del maschile contro il femminile, che risale agli albori della civiltà per come noi la conosciamo, mascherandolo con etichette truffaldine: la donna è accoglienza e immanenza, l’uomo è trascendenza e azione; l’uomo è al potere e la donna deve trovare la propria realizzazione al di fuori del potere, nella cura e nella vita; mentre l’uomo trascende hegelianamente la vita per rincorrerne il senso e per dare, lui non lei, corso alla storia; il rosa e l’azzurro che vengono messi nelle nostre culle alla nascita come dei sigilli ai nostri destini.
Che la società sia stata capace di innalzare a tal punto il livello di riflessione e di portarlo su un testo di legge che, per quanto perfettibile, ha saputo tracciare la linea di confine tra la libertà di espressione e l’egodiritto di poter discriminare e perseguitare l’altro per sentirsi meschinamente migliori e più forti, è stato davvero straordinario.
Quello che è successo l’altro giorno in Senato, invece, non è stato niente. Il movimento che si è creato in sostegno del progetto di legge Zan ha dato vita a una vera e propria politica di riconoscimento: essenziale, come ci insegnava la luminosa Letizia Gianformaggio, per portare la differenza nell’uguaglianza e per realizzare la missione più alta che il diritto possa avere nella storia: far sentire la persona radicata in e per ciò che è, permetterle di essere sua e sottrarla alla violenza che si alimenta solo dell’urgenza ontologica di distruggere.
Passi in avanti così profondi nella coscienza collettiva non finiscono. Il niente che dura un minuto: una sfida, un applauso, una risata sguaiata che risuona in un palazzo, quello sì finisce subito. Una grass root constituency che si eleva dal basso del Paese reale e innalza la dignità umana non finisce, può solo crescere.
Magistratura democratica sarà dentro questa crescita e si farà luogo di elaborazione giuridico culturale dei profondi temi che questa vicenda ha sollevato, svegliandoci dal sonno della pax patriarcale. Il non facile, ma possibile, uso “a-essenzialista” del genere, per tenere insieme la differenza delle donne – che non sono e non saranno mai una categoria da proteggere perché sono la metà della specie umana – con la libertà individuale di esprimere un’identità propria e non rispondente alla sovrastruttura assegnata in base al sesso di nascita, e anche di intraprendere un percorso di non binarismo, oppure di transizione, che deve essere compreso e protetto. E la tenuta del garantismo, a ricordarci sempre che lo strumento penale può e deve essere usato per proteggere la sfera più alta dei diritti della persona, ma in un’ottica sempre più responsiva e riparativa, e soprattutto in affiancamento ad altri strumenti ordinamentali, come il diritto antidiscriminatorio e l’educazione. Noi saremo al fianco della comunità lgbtq+ in questo cammino, per lungo che sia.
*Comitato esecutivo di Magistratura democratica.
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