«Troppo timidamente a favore della sinistra», «Così gli operai votano Meloni». Tirata per la giacca da commentatori e politici, la Cgil ha in realtà deciso scientemente e per tempo di rimanere fuori dalla contesa elettorale.

IL 21 LUGLIO IL DIRETTIVO della Cgil ha scelto di sospendere il lungo processo congressuale e di farlo ripartire proprio all’indomani del risultato elettorale: il 30 settembre partiranno le «assemblee di base» in tutti i luoghi di lavoro.
La quasi unanimità della Cgil ha dunque convenuto che il documento congressuale scritto con l’orizzonte di avere un governo Draghi fino al congresso – ora spostato a marzo (15-18 marzo a Rimini) – doveva essere ricalibrato nella più che probabile prospettiva di doversi confrontare con un governo di destra guidato da Giorgia Meloni.

Una decisione non facile passata sotto completo silenzio mediatico.

In questi giorni invece tornano a fare capolino gli ormai triti e ritriti articoli dalle fabbriche che raccontano di operai che esplicitamente dichiarano il loro voto per la destra. Sono gli stessi oramai da vent’anni, da quando qualcuno improvvisamente scoprì che nelle fabbriche del Nord si votata Lega anche con la tessera della Fiom in tasca, semplicemente perché fuori dalla fabbrica la sinistra non faceva più gli interessi dei lavoratori.

LO SFILACCIAMENTO dell’identità di classe di operai e lavoratori è un processo che va avanti dagli anni ’90. E che, se certamente deve preoccupare il sindacato, ha avuto nella mancanza di rappresentanza del lavoro da parte dei partiti di sinistra la causa principale.

La Cgil – e il sindacato tutto – deve certamente farsi carico di questo progressivo slittamento che negli operai vede sostituire l’interesse personale a l’interesse generale e della società. Accanto a questo processo c’è poi una sempre più evidente mancanza di conoscenza e informazione degli operai stessi. Prova ne sia il fatto che se la motivazione principale del voto operaio alla destra è l’interesse ad andare in pensione, l’illusione che ciò accada è un fatto incontrovertibile. La sola Lega di Salvini propone «Quota 41», appropriandosi di un solo pezzetto della piattaforma sindacale che invece propone una modifica strutturale della riforma Fornero (ancora contestate le sole 4 ore di sciopero) a partire dalla molto più impattante flessibilità in uscita a partire da 62 anni per passare alla pensione di garanzia per quei milioni di precari, molti figli di operai.

GIORGIA MELONI NON PROPONE nemmeno l’uscita con 41 anni di contributi, quota molto alta soprattutto se ci sarà un tetto agli anni di contributi figurativi per i lunghi periodi di cassa integrazione che gli operai di Mirafiori in primis hanno dovuto subire. Dunque, gli operai che voteranno Meloni non avranno nemmeno la pensione.

Quanto alla Cgil «cinghia di trasmissione» del Pci e dei suoi derivati, il tema fu affrontato e sepolto da Bruno Trentin sempre negli anni ’90. Così come è scorretto citare a sproposito l’«autonomia» dalla politica professata da Claudio Sabatini, visto che la Cgil la porta avanti almeno da più di un decennio.

La Cgil è dunque indipendente dalla politica ma non certamente equidistante. E anzi in queste settimane registra con favore le abiure del Pd su Jobs act e «Terza via» di Blair. In questo contesto va letta la candidatura proposta da Enrico Letta e accettata «come indipendente» da Susanna Camusso: la segretaria generale che si oppose strenuamente al renzismo imperante nello stesso partito. Le polemiche sulla sua scelta – anche fra gli iscritti e dirigenti Cgil – testimoniano come in molti credano poco alla svolta del Pd. E alle scelte di alcuni dirigenti della Cgil, anche negli ultimi anni: Teresa Bellanova e Vincenzo Colla, solo per citarne due.

PER NON FARSI TIRARE troppo per la giacca comunque Maurizio Landini farà sentire la sua voce in queste settimane. Domani a Bari e soprattutto mercoledì 14 a Bologna l’attivo dei delegati sarà l’occasione per ribadire le posizioni della Cgil.
Così come la manifestazione di sabato 8 ottobre a piazza San Giovanni a Roma a un anno dello sfregio dell’assalto fascista alla sede nazionale di Corso Italia sarà con molta probabilità la prima risposta a un governo guidato da una neofascista. Condito da qualche autocritica per aver creduto a Draghi e alla sua promessa di scogliere Forza Nuova.