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La «cellula prima» della democrazia: i consigli di fabbrica e lo scontro nel Pci

castellina-milani-rossanda-magri-1969Luciana Castellina, Eliseo Milani, Rossana Rossanda, Lucio Magri nel 1969 – Luciana Castellina, Eliseo Milani, Rossana Rossanda, Lucio Magri nel 1969

La storia Il gruppo fondatore de Il Manifesto: la ricerca di una nuova istituzione nella stagione più alta del conflitto sociale

Pubblicato 8 mesi faEdizione del 30 gennaio 2024

«L’ipotesi da cui muoviamo è che anche per il Pci sia necessario qualche cosa di più di una correzione o uno sviluppo di linea: un rinnovamento ed un rilancio dello strumento politico in tutti i suoi aspetti e a tutti i livelli». Così scriveva Lucio Magri nell’estate del ‘69 su la rivista de Il Manifesto, evidenziando uno dei nodi attorno a cui è nata la rivista, ovvero la necessità di ripensare un modello di partito che possa far vivere al suo interno una dialettica tra base e direzione, e che possa essere motore per costruire una democrazia di massa nella società. A partire da queste riflessioni, Il Manifesto identifica allora più ampiamente una crisi del rapporto tra istituzioni e società, sulla scia dei movimenti degli anni ‘68-‘69, che vengono letti dal gruppo come una sfida ai partiti per rinnovare una democrazia parlamentare percepita come superata.

Già nel 1962, al convegno organizzato dall’Istituto Gramsci intitolato «Tendenze del capitalismo italiano», Magri propone un’analisi dei cambiamenti socioeconomici in polemica con Giorgio Amendola, difendendo l’idea che la società italiana è di fronte a un capitalismo che fa emergere problemi nuovi – «quelli della donna, della scuola, dell’agricoltura, della gioventù, della cultura» –, la cui risposta non può essere data solo da riforme e nazionalizzazioni: il partito dovrebbe promuovere lo sviluppo di organizzazioni proletarie all’interno della società, con obiettivi che contengano in nuce un superamento del sistema capitalistico.

Tali riflessioni, dal ruolo del Pci si estendono anche al tipo di democrazia che esso dovrebbe costruire al suo interno. Così, la sinistra comunista, attorno al futuro gruppo del manifesto e a Pietro Ingrao, rivendica perfino un «diritto al dissenso» durante l’XI Congresso nel ‘66, invocando un confronto aperto. Ingrao viene duramente attaccato e gli esponenti della sinistra comunista sono rimossi dalle loro funzioni.

Il gruppo de Il Manifesto, il cui primo numero esce nel giugno del ‘69, non demorde, e sul dibattito riguardo alla democrazia del partito si innesca la tematica dei consigli di fabbrica. Di fronte al moltiplicarsi delle organizzazioni di base nelle fabbriche, il gruppo teme che il Pci ripeta l’errore compiuto con il movimento studentesco, quando non capì la rivolta giovanile «soltanto perché si presentava in moduli ideologici e organizzativi differenti dai nostri», scrive Rossana Rossanda su Rinascita nell’estate del ‘69. Una trasformazione strutturale è necessaria per poter accogliere soggetti che richiedono modelli e pratiche politiche nuove. Così, il numero 4 della rivista propone una vera teorizzazione del modello di partito, a partire dalle riflessioni di Gramsci sui consigli e sul «principe moderno». In effetti, per il manifesto il consiglio di fabbrica rappresenta la «cellula prima» della democrazia proletaria, ed è la struttura più adatta affinché gli operai si formino, tramite la lotta e la discussione in assemblee, senza rifiutare né la delegazione a rappresentanti, né la direzione di un partito, responsabile di coordinare le forze.

Se la battaglia del manifesto all’interno del Pci, e anche fuori dopo la radiazione a novembre del ‘69, mira a cambiare un’organizzazione politica ai loro occhi inadeguata, non si limita tuttavia ad un’analisi tutta incentrata sul partito. Una sua trasformazione interna è indissociabile da una trasformazione della società intera, e si richiede al partito «una rivoluzione dentro di sé per promuoverla fuori di sé», scrive Luigi Pintor nella rivista. Così, la riflessione portata avanti dal manifesto sul modello di partito si lega a una crisi più ampia del rapporto tra società e istituzioni. Di fronte ad elezioni ormai ridotte a «riti simbolici», scrive Magri nel gennaio 1970, a parlamenti «privi di potere reale», avanza una nuova forma di totalitarismo «legato alla concentrazione del potere economico, agli imperativi di una tecnologia che il sistema orienta, alle scelte ideologiche che i mass media impongono, ai vincoli dell’integrazione internazionale». Un totalitarismo che non crescerebbe a scapito della democrazia rappresentativa, ma che sarebbe per l’appunto la conseguenza di un sistema istituzionale «la cui essenza è la separazione del politico dal sociale, l’isolamento dell’individuo nell’astratta figura del cittadino». Sulla base di tale costatazione, Il Manifesto elabora quindi una strategia che mira a moltiplicare le «cellule prime» di una nuova democrazia: un dialogo tra pratica e teoria che il gruppo tenterà di tenere vivo anche negli anni successivi, insieme agli altri protagonisti della stagione dei movimenti che hanno caratterizzato gli anni Settanta.

*Storica, dottoranda dell’università di Lione con la tesi «Il Manifesto: témoin et acteur de la société italienne (1969-1978)»

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