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La catastrofe mai finita

La catastrofe mai finita

Documentario La testimonianza di Pio d'Emilia in "Fukushima: a Nuclear Story" di Matteo Gagliardi, che ricostruisce l'incidente del marzo del 2011 e le sue conseguenze sul Giappone

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 11 marzo 2016
Pio-dEmilia
Pio D’Emilia

Quella di Fukushima è una crisi «ancora in corso». A dirlo è il primo ministro di allora Naoto Kan, a Roma in occasione della presentazione di Fukushima: A Nuclear Story di Matteo Gagliardi e tratto dal libro Tsunami nucleare del giornalista Pio d’Emilia (Ilmanifesto Edizioni), unico in quei giorni a recarsi presso le centrali danneggiate dall’onda anomala piuttosto che fuggire.

Il documentario, che debutta oggi alle 21 su Sky Cult HD e Sky Tg24, ripercorre e ricostruisce infatti sia le tappe dell’incidente che la scelta di d’Emilia di muoversi controcorrente e violare il limite invalicabile di 20 km imposto dalle istituzioni intorno a Fukushima.

Dall’incontro tra lui e Matteo Gagliardi nasce questa accurata disamina di ciò che accadde e questo monito per il futuro, con cui vengono esposti gli errori, le responsabilità e le omissioni connesse con l’incidente.

Guidando tra strade deserte, Pio d’Emilia filma ciò che vede con il suo cellulare: gli edifici divelti come una donna affacciata alla finestra che si rifiuta di abbandonare il marito malato. E testimonia anche le conseguenze, sia quelle tangibili che quelle sociali, come la crisi di fiducia del popolo nipponico nel confronto delle istituzioni: «dal padre al capufficio fino al primo ministro, la fiducia nelle autorità è sempre stato il collante sociale che per secoli ha legato il cittadino al suo simbolo, l’imperatore». Ora invece non esiste più la «fiducia cieca» nelle autorità: «ci si è resi conto che possono mentire e lo hanno fatto».

Come ha deciso di andare proprio nel luogo da cui tutti scappavano?

A differenza di quanto molti hanno scritto sul momento Fukushima non è mai stata Chernobyl. In primo luogo perché non si è verificata l’esplosione del reattore ma due implosioni che non hanno rilasciato molte radiazioni nell’aria. Inoltre il fallout è stato scongiurato, la cosa gravissima semmai è che c’è stato un meltdown che ancora contamina il mare e le falde acquifere. Quindi non mi sento né un kamikaze né un eroe. Ho solo fatto ciò che i giornalisti dovrebbero fare: valutare i rischi e stabilire qual è il giusto equilibrio fra dovere d’informazione e diritto alla propria sicurezza.

Com’è stata la copertura mediatica in quei giorni?

Sono orgoglioso di essere stato il primo ad arrivare alla centrale, ma anche disgustato dal fatto che i primi non siano stati i colleghi giapponesi. La stampa locale ha infatti la grave colpa di non aver coperto affatto l’evento, autocensurandosi: c’è stata un’omertà totale, una decisione di ignorare la gravità della situazione giustificata con il bisogno di rispettare le leggi. La stampa internazionale, e soprattutto quella italiana, ha scritto invece un gran numero di sciocchezze, alcuni si sono addirittura inventati di essere sul luogo quando non era vero.

Le stesse autorità davano informazioni contrastanti.

Il cosiddetto «villaggio nucleare», sin dalle sue prime manifestazioni negli Stati Uniti, si basa sugli stessi archetipi della mafia – omissione, manipolazione, arroganza, ricerca del profitto -tanto che Naoto Kan lo ha appunto definito «mafia nucleare». Quindi mentiva la Tepco quando diceva che non c’era pericolo e soprattutto mentivano gli americani – che tendevano a sminuire, essendo i proprietari dei brevetti e i fornitori dei reattori – e i francesi, che esageravano la situazione perché sono i più agguerriti competitori delle società americane che si occupano di nucleare.

Ha descritto Naoto Kan come un politico che si è preso l’onere di cambiare idea, passando da sostenitore a nemico del nucleare.

Ho conosciuto Naoto Kan nel 1994 quando ebbe il coraggio di denunciare le partite di sangue contaminato che i burocrati del suo ministero avevano dato il permesso di distribuire. Lo ritengo un politico onesto, con una visione, che avrebbe potuto cambiare davvero il Giappone rendendolo un paese più «simpatico» e meno appiattito sulle posizioni degli Stati Uniti.
E’ un mio grande dispiacere politico e umano che lui fosse primo ministro nel momento in cui una catastrofe come quella di Fukushima, che avrebbe travolto chiunque, si è abbattuta sul paese. A differenza della maggior parte della stampa giapponese, che lo ha ritenuto quasi corresponsabile o perlomeno incapace, ritengo che le sue scelte siano state fondamentali nella gestione della crisi. E’ stato lui a costringere la Tepco a non abbandonare la centrale e ad autorizzare l’utilizzo di acqua marina per raffreddare i reattori.

Naoto Kan aveva disposto l’uscita dal nucleare. Oggi Shinzo Abe rivuole le centrali operative.

Shinzo Abe vuole la riapertura delle centrali, ma in realtà sono in molti ormai ad aver capito che il nucleare non è una tecnologia nuova né vantaggiosa: abbiamo sempre saputo che era pericoloso, e adesso abbiamo anche la certezza che non è nemmeno economicamente percorribile. Si parla di 100 miliardi di dollari solo per lo smantellamento delle centrali di Fukushima: più del costo dell’uragano Katrina a New Orleans. Ma io credo che il Giappone, con un nuovo governo, potrebbe diventare il leader mondiale delle energie rinnovabili.

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