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La camicia di forza culturale dell’egemonia a tutti i costi

La camicia di forza culturale dell’egemonia a tutti i costiVladimir Putin e Xi Jinping alle Olimpiadi di Pechino, febbraio 2022 – Ap

Dov'è la vittoria Le classi dirigenti degli Stati uniti sono ossessionate dal mantenere il ruolo egemone del loro paese sul pianeta. L’attuale presidente americano sembra non capire la forza del nazionalismo altrui. Né Putin né Xi sono bravi ragazzi e sicuramente i loro popoli starebbero meglio senza di loro. Né l’uno né l’altro però, vogliono bombardare la California e neanche la Polonia o la Germania: quello che vogliono è riconoscimento, non umiliazione

Pubblicato più di un anno faEdizione del 21 febbraio 2023

«Dalle frontiere d’Ungheria al cuore della Birmania (…) il demonio russo assilla e turba il genere umano e perpetra diligentemente le sue perfide frodi» scriveva il Times di Londra nell’anno di grazia 1838 ma potrebbero benissimo essere uscite sul New York Times di ieri, in coincidenza con la visita di Joe Biden a Kiev. L’impero inglese non c’è più, sostituito da quello americano, ma il linguaggio, 185 anni dopo, è tornato lo stesso. L’Occidente è «industrioso ed essenzialmente pacifico» (ancora il Times del 1838) mentre Putin è assetato di sangue.

Che Vladimir Putin sia un satrapo orientale non cambia nulla a una questione fondamentale: questa narrazione manichea è sbagliata e pericolosa. Viene da lontano, dalla russofobia inglese dell’Ottocento, ma oggi rischia di condurre l’Europa e il mondo a un conflitto generalizzato.

CERTO, PUTIN ha invaso l’Ucraina ma nell’arco degli ultimi due secoli la Russia è stata invasa da francesi e inglesi nel 1812 (Napoleone), nel 1853 (guerra di Crimea a cui partecipò anche l’Italia), nel 1919 (spedizioni in Siberia e nel Baltico a sostegno dei generali zaristi), nel 1941 (Hitler e Mussolini). Chiunque stia al Cremlino non può vedere la Nato a Kiev come se si trattasse della Croce Rossa internazionale: lo ripete da anni uno dei pochi studiosi di relazioni internazionali che non credono alla propaganda di Washington, John Mearsheimer.

Era il 1984 quando Barbara Tuchman pubblicava La marcia della follia, un libro che dovrebbe stare sul comodino di tutti i presidenti, cancellieri e primi ministri da Londra a Tokyo, passando per Bruxelles e Roma. Purtroppo molti di loro sono in preda a quella che la scrittice statunitense definiva “autoipnosi” e credono alla loro stessa propaganda, come dimostra la reazione isterica delle classi dirigenti americane all’episodio del presunto pallone spia cinese, dieci giorni fa.

Con la visita a Kiev Joe Biden sembra voler riportare la politica americana agli anni Sessanta, quelli del conflitto permanente sia con la Russia che con la Cina, attraverso alleati locali. Era il 1958 quando il mondo si trovò sull’orlo di un conflitto nucleare attorno alla sorte di due insignificanti isolette contese fra Pechino e Taiwan: Quemoy e Matsu. Era il 1962 quando Kennedy e Krusciov rischiarono la Terza guerra mondiale per i missili sovietici a Cuba. In entrambi i casi il disastro fu evitato ma il “lieto fine” è garantito solo nei film di Hollywood, non nella vita reale.

Tuchman vinse il premio Pulitzer con il suo libro I cannoni d’agosto (1963) dove spiegava che lo scoppio della Prima guerra mondiale non era veramente desiderato da nessuno dei protagonisti ma che i governi austriaco, tedesco, francese e inglese erano incapaci di misurare veramente le conseguenze di ciascuna delle loro azioni che conducevano alla guerra.

AGIVANO come “sonnambuli”, un concetto ripreso nei giorni scorsi dal filosofo tedesco Jürgen Habermas: «L’alleanza occidentale non solo sostiene l’Ucraina ma ribadisce instancabilmente che sosterrà il governo ucraino per tutto il tempo necessario». Questo crea «il rischio di aggirarsi come sonnambuli sull’orlo dell’abisso». L’abisso di una guerra nucleare ben più devastante del conflitto iniziato nel 1914.

La situazione attuale in parte riflette la camicia di forza culturale a cui nessun presidente americano può sottrarsi: le classi dirigenti degli Stati uniti sono ossessionate dal mantenere il ruolo egemone del loro paese sul pianeta. Per un altro verso, Biden sembra agire come Lyndon Johnson, un altro presidente tanto progressista in politica interna quanto bellicoso in politica estera.

JOHNSON non capiva Ho Chi Minh, né il nazionalismo vietnamita, Biden pensa che Putin sia un tirannello di seconda categoria invece che l’espressione di una visione del mondo che risale Pietro il Grande e che certo non può accettare la perdita della Crimea, oggetto di un’invasione occidentale già nel 1853. Anche l’attuale presidente americano sembra non capire la forza del nazionalismo altrui, centuplicata quando si tratta di difendere la patria dall’occupazione straniera o dalla minaccia di perdita di territori storicamente russi.

Né Putin né Xi sono bravi ragazzi e sicuramente i loro popoli starebbero meglio senza di loro. Né l’uno né l’altro però, vogliono bombardare la California e neanche la Polonia o la Germania: quello che vogliono è riconoscimento, non umiliazione. Né l’uno né l’altro sono più paranoici di quanto lo siano il Congresso americano o i mediocrissimi consiglieri di Biden.

Come ha scriveva 30 anni fa Giovanni Arrighi, «il segreto del successo capitalistico consistere nel far combattere ad altri le proprie guerre, se possibile senza costi e, altrimenti, al minor costo possibile». I costi dell’Ucraina, in assenza di leader all’altezza della situazione, rischiano però di diventare catastrofici per tutti.

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