La sindrome di Alzheimer non è contagiosa. Sembra superfluo specificarlo, ma è facile farsi venire il dubbio leggendo i titoli di questi giorni a commento di una scoperta all’apparenza decisamente rilevante. I ricercatori dello University College di Londra guidati dal neuroscienziato John Collinge hanno infatti individuato alcuni casi di malattia di Alzheimer trasmessa attraverso l’ormone della crescita estratto da cadaveri.

La scoperta è stata pubblicata sull’ultimo numero della rivista «Nature Medicine».
I casi sono 8, individuati in una banca dati di 1848 pazienti britannici curati con l’ormone della crescita tra il 1959 e il 1985. Nel Regno Unito, la terapia a base di ormoni prelevati dagli obitori è stata abbandonata nel 1982 per il forte rischio di contaminazione.

È noto, ad esempio, che alcuni casi di sindrome di Creutzfeld-Jakob – simile alla «mucca pazza» contratta mangiando carne di bovini nutriti con farine animali – sono stati causati dall’assunzione del prione nocivo insieme all’ormone della crescita. Qualcosa del genere potrebbe essere successo con le proteine beta-amiloidi, il cui accumulo nel tessuto cerebrale è strettamente associato allo sviluppo della malattia di Alzheimer: le proteine potrebbero essere penetrate nel cervello e aver favorito la formazione delle tipiche «placche».

Diversi indizi corroborano questa ipotesi. Gli otto pazienti hanno sviluppato i sintomi della demenza in giovane età, ma almeno in cinque casi su otto la mutazione genetica responsabile dell’Alzheimer precoce non era presente (negli altri tre casi le informazioni genetiche non erano disponibili). Ci sono tuttavia anche evidenze contraddittorie.

Ad esempio, nel tessuto cerebrale dei pazienti non erano presenti né le proteine tau – anch’esse correlate alla malattia – né l’infiammazione. Inoltre, due pazienti erano affetti da disabilità intellettiva che renderebbe incerta la diagnosi di Alzheimer. In ogni caso si tratterebbe di rari casi strettamente legati a una pratica medica ormai in disuso. E nulla suggerisce che la malattia sia contagiosa, come alcuni media in cerca di click hanno insinuato. Le persone con la demenza di Alzheimer hanno un bisogno continuo di contatto e assistenza da parte di altre persone e timori infondati sulla sua trasmissibilità rischiano di lasciare ancora più soli i malati e i loro familiari.

Per altro la notizia non è neanche nuovissima. Lo stesso gruppo di ricercatori aveva fatto una scoperta simile già nel 2015 e lo studio pubblicato su «Nature Medicine» non aggiunge granché alla conoscenza del problema. Sulle cause della malattia continuiamo a sapere pochissimo. Nelle prossime settimane è prevista l’approvazione per il mercato europeo dei primi farmaci che puntano a migliorare le funzioni cognitive dei malati dissolvendo le placche amiloidi. Ma si sa che l’efficacia di questi medicinali è limitata da fattori oggettivi. Uno degli ostacoli principali è il fatto che i sintomi diventano evidenti solo quando la malattia è in uno stadio già troppo avanzato per essere reversibile. Una speranza arriva dallo sviluppo di nuovi test di facile somministrazione capaci di identificare la malattia in uno stadio precoce.

Uno studio dell’università di Goteborg (Svezia) apparso il 22 gennaio sulla rivista «Jama Neurology» ha dimostrato che un esame del sangue già in commercio ha un’accuratezza diagnostica paragonabile a quella della biopsia del liquido cerebrospinale, una pratica decisamente più invasiva e costosa. Se la notizia sarà confermata, Paesi dall’età media elevata come il nostro potrebbero avviare screening di massa per la diagnosi precoce in tempi relativamente brevi.