La Banca Centrale Europea (Bce) ha mantenuto ieri i tassi di interesse fermi per la prima volta dopo dieci rialzi consecutivi in oltre un anno, ma non intende cambiare la sua politica anti-inflazione che sta lentamente strozzando l’economia europea. Nuovi rialzi potrebbero essere decisi nel caso in cui l’inflazione dovesse rialzare la testa a causa di un aumento dei prezzi del petrolio e di altre materie prime energetiche.

In una conferenza stampa tenuta ieri ad Atene la presidente della Bce Christine Lagarde non ha escluso tale eventualità e ha spiegato che questo potrebbe essere uno degli effetti della nuova guerra in Medio Oriente. Per il momento la Bce si trova in mezzo ad un guado: da un lato, ha registrato che l’inflazione era calata a settembre nell’ultimo anno nell’Eurozona al 4,3% dal picco del 10,6 di un anno fa; dall’altro lato ha previsto che il tasso non tornerà vicino all’obiettivo del 2% stabilito prima del terzo trimestre del 2025. L’inflazione di fondo, che esclude i prezzi volatili di cibo ed energia, è rallentata al 4,5%.

Questo significa che, pur in discesa e comunque soggetta a possibili impennate repentine, l’inflazione sarà persistente. La Bce terrà dunque alti i tassi di interesse che hanno aumentato il costo dei mutui, quello degli interessi sul debito pubblico italiano e dato un’altra spallata al già basso potere di acquisto dei salari. E, infine, continuerà a premiare i profitti, un altro dei principali effetti di questa politica che misconosce le cause dell’inflazione (detta, appunto, «inflazione da profitti» e non da spirale prezzi-salari) e ne sottovaluta la trasformazione in corso. Casomai l’annunciato effetto della nuova guerra sui prezzi dovesse effettivamente accadere, e la Bce dovesse prima o poi continuare ad alzare i tassi, gli effetti recessivi di questa decisione continuerebbero ad abbattersi sull’economia reale, contribuendo a zavorrare la «crescita» già sotto lo zero virgola. Anche in questo caso i principali vincitori saranno coloro che incassano i profitti delle speculazioni sui prezzi.

Gli effetti di questa politica non sono certamente sconosciuti alla Bce. All’inizio della settimana Francoforte ha verificato che la domanda di prestiti da parte di imprese e famiglie è diminuita fortemente nel terzo trimestre di quest’anno, più di quanto inizialmente previsto. Altri dati, pubblicati dalla Bce, hanno mostrato che l’attività commerciale nell’Eurozona si è contratta in ottobre, a causa del calo dei nuovi ordini e della riduzione dei posti di lavoro da parte delle aziende. L’aumento dei tassi continua «a trasmettersi con forza alle condizioni di finanziamento – ha confermato Lagarde – Questo sta riducendo sempre di più la domanda, contribuendo così a far scendere l’inflazione». Ma anche a strozzare la produzione manifatturiera, la domanda estera e la spesa dei consumatori.

Da Lagarde è arrivata ieri anche un’altra notizia. Non nuova, ma conviene evidenziarla per capire la situazione in cui si trova il governo italiano. I bonus erogati per mitigare l’aumento dei prezzi dell’energia andranno eliminati al più presto perché rischiano di da un contributo al ri-aumento dell’inflazione. La Bce, infatti, presume che il calo dell’inflazione sia dovuto ai prezzi dell’energia. Stanziare ingenti risorse pubbliche per attutire il loro impatto sui redditi e i salari medio-bassi può invertire la tendenza. Per l’Italia l’indicazione di abbassare «gradualmente» i bonus può significare annullare una leva usata – sin dal governo «Conte 2» durante la pandemia – per sostenere i salari bloccati da trent’anni e massacrati dall’inflazione. Eliminarli potrebbe significare amplificare la crisi aperta dall’inflazione e approfondita dalle politiche monetarie restrittive adottate per farla diminuire.