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La battaglia sul clima tra Eni e Greenpeace

La battaglia sul clima tra Eni e Greenpeace

Greenpeace e ReCommon hanno avviato un «conflitto climatico» contro la multinazionale, che a sua volta ha denunciato le associazioni

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 14 marzo 2024

Si attende a giorni la decisione del giudice civile Corrado Cartoni sulla prosecuzione della causa che Greenpeace e ReCommon hanno intentato nei confronti dell’Eni, la multinazionale italiana dell’energia e dei combustibili fossili, quotata in Borsa ma partecipata dallo Stato. Si tratta del primo «contenzioso climatico», cioè un’azione giudiziaria di un gruppo di cittadini o di associazioni che chiedono di imporre il rispetto di determinati standard in materia di riduzione delle emissioni di gas serra, nei confronti di una società privata in Italia. Il magistrato del tribunale di Roma potrebbe aprire l’istruttoria, cioè la fase processuale in cui si ascoltano testimoni e si raccolgono informazioni in vista dell’udienza conclusiva che potrebbe svolgersi entro la fine dell’anno, o disporre una consulenza d’ufficio, che allungherebbe i tempi.

ALLA PRIMA UDIENZA, il 16 febbraio, le due associazioni ambientaliste hanno chiesto al magistrato di riconoscere le responsabilità climatiche dell’Eni e di costringerla a rivedere il suo piano industriale, applicando gli impegni presi a livello internazionale per uscire dal fossile riducendo le emissioni derivanti dalle sue attività di almeno il 45 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020, come indicato dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5°C e rispettare l’Accordo di Parigi sul clima.

SECONDO GREENPEACE E RECOMMON, che nei mesi scorsi hanno presentato tre relazioni scientifiche sul caso, Eni è consapevole da tempo degli effetti negativi delle attività in cui investe, ma non sta facendo abbastanza per limitare il proprio impatto sull’ambiente e sul clima. Gli ambientalisti hanno trovato alcune pubblicazioni prodotte da Eni negli anni Settanta e Ottanta in cui l’azienda, che all’epoca era di proprietà statale al cento per cento, metteva in guardia sui possibili impatti devastanti derivanti dalla combustione dei combustibili fossili.

A loro parere, la mancata adesione della compagnia all’iniziativa «Climate ambition alliance: race to zero» – una piattaforma lanciata al vertice Onu sul clima di New York che raggruppa Stati, imprenditori, investitori finanziari, città e regioni che hanno l’obiettivo di azzerare le emissioni di CO2 nell’atmosfera – indicherebbe la volontà di non rispettare gli accordi internazionali sulla decarbonizzazione.

NELL’ATTO DI CITAZIONE DEPOSITATO in tribunale accusano la multinazionale di fare una «politica climatica inadeguata» e chiedono che l’azienda sia obbligata a rivedere la propria strategia industriale per rispettare l’Accordo di Parigi sul clima del 2015, ovvero per ridurre le emissioni di almeno il 45 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020. La stessa richiesta è estesa anche al ministero dell’Economia e delle Finanze e a Cassa depositi e prestiti, entrambi azionisti dell’Eni.

LA MULTINAZIONALE HA INVECE contestato «la totale infondatezza delle accuse avanzate da Greenpeace e ReCommon, sia dal punto di vista giuridico che di merito» e ha a sua volta denunciato le due associazioni per diffamazione. Nei giorni scorsi ha anche comunicato a Greenpeace l’avvio di un nuovo iter di mediazione che potrebbe preludere a una seconda denuncia, legata ai contenuti del rapporto «Emissioni di oggi, morti di domani. Come le principali compagnie petrolifere e del gas europee mettono a rischio le nostre vite| e della raccolta di pareri di esperti in legge «Omicidio climatico: le aziende fossili scamperanno all’accusa?», entrambi pubblicati da Greenpeace Paesi Bassi, ripresi sul sito Greenpeace Italia e diffusi sui canali social dell’organizzazione.

Eni ha sostenuto che la sua strategia «è pienamente coerente con gli obiettivi di decarbonizzazione posti a livello internazionale» e ha detto di non aver aderito alla Climate ambition alliance per «ragioni oggettive», vale a dire «poiché quest’ultima non ha ancora sviluppato una metodologia specifica per la validazione degli obiettivi del settore oil&gas».

Per avvalorare le sue tesi, ha presentato due relazioni tecniche, affidate a Carlo Stagnaro, che è il direttore dell’Istituto Bruno Leoni, un centro studi che promuove il pensiero liberale in Italia, e a Stefano Consonni, che è un docente di Sistemi per l’energia e l’ambiente del Politecnico di Milano ed è il coordinatore di Leap, una società promossa dall’università milanese che coordina un progetto finanziato dal programma Horizon dell’Unione europea per dimostrare la fattibilità della filiera di cattura, utilizzo e stoccaggio di CO2 per contenere le emissioni di CO2.

STAGNARO NELLA SUA RELAZIONE sostiene che «il percorso verso la decarbonizzazione dovrà necessariamente essere graduale, poiché trasformazioni non ordinate rischiano di generare effetti negativi dal punto di vista dell’equità sociale o della sicurezza energetica». A suo parere, «il ruolo principale nella definizione di un percorso di decarbonizzazione efficace deve essere assunto dagli Stati, che devono definire delle politiche pubbliche finalizzate a promuovere la riduzione delle emissioni, sia con azioni dal lato dell’offerta, sia con azioni dal lato della domanda».

CONSONNI INVECE ESAMINA «tutti i principali scenari globali di decarbonizzazione». Secondo la multinazionale italiana, «entrambe le relazioni tecniche confermano l’illogicità ed erroneità metodologica del confronto tra le traiettorie globali di decarbonizzazione e la traiettoria di decarbonizzazione di una singola impresa, quale Eni».

GREENPEACE HA CONTESTATO la scelta dei consulenti da parte dell’Eni. Ha accusato Stagnaro di aver sostenuto tesi negazioniste del clima, «diffondendo anche in Italia teorie senza fondamento sui cambiamenti climatici, lasciandosi andare a duri strali contro l’Ipcc, ovvero la massima autorità scientifica in materia a livello globale, e intessendo una fitta rete di rapporti con le più note organizzazioni negazioniste globali, con tanto di partecipazione a eventi di divulgazione organizzati da think tank che da decenni lavorano per spargere dubbi sull’origine antropica dei cambiamenti climatici (se non addirittura per cercare di confutarla)».

Consonni invece avrebbe «collaborazioni pluridecennali con le più grandi aziende globali dei combustibili fossili, come Exxon, BP e la stessa Eni», che lo hanno portato a «fare consulenze nonostante il suo ruolo di docente universitario e dipendente pubblico, tanto che nel 2021 è stato condannato dalla Corte dei Conti a risarcire al Politecnico di Milano 250 mila euro per aver svolto, senza autorizzazione dell’università, incarichi in favore di società profit» come A2a Ambiente, Acea Ambiente, Engie Servizi e Lomellina Energia. Eni ha invece condannato quelli che considera come «attacchi personali» a «professionisti riconosciuti e accreditati nella comunità accademico-scientifica, delle cui competenze e attendibilità non si può in alcun modo dubitare».

NELL’ULTIMO RAPPORTO DI OIL CHANGE International, una Ong che monitora il «vero costo» dei fossili e promuove la transizione alle energie alternative, si legge che Eni nel 2022 ha investito quindici volte di più nel business dei combustibili fossili che in Plenitude, il ramo aziendale che si occupa di rinnovabili. La multinazionale italiana è presente in 62 Paesi e ha 32 mila dipendenti, 21 mila dei quali in Italia. È attiva non solo nel settore petrolifero, ma controlla 19 società che operano in diversi settori, dall’attività bancaria al gas naturale, passando per biocarburanti alle fonti rinnovabili, fino al giornalismo, con l’agenzia di stampa Agi.

NEL 2023 HA CHIUSO IL BILANCIO con un utile netto di 4,7 miliardi di euro, in calo del 66 per cento rispetto al 2022, quando le compagnie petrolifere a causa dell’aumento dei prezzi legato alla invasione russa dell’Ucraina fecero degli extraprofitti così elevati che il governo Draghi nella primavera del 2002 impose un contestato «contributo straordinario», poi ridotto dal governo Meloni. Secondo l’amministratore delegato Claudio Descalzi, «il 2023 è stato per Eni un altro anno di eccellenti risultati, nonostante uno scenario incerto e volatile». «Abbiamo conseguito ottimi risultati sia finanziari che operativi, progredendo nella nostra strategia di creazione di valore, di decarbonizzazione e di contestuale garanzia di stabilità e affidabilità delle forniture energetiche», ha concluso.

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