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Kuindzhi, paesaggi da Mariupol’

Kuindzhi, paesaggi da Mariupol’Arkhip Ivanovich Kuindzhi, "Boschetto di betulle", 1879, Mosca, Galleria Tretjakov

L'arte e la guerra E' stato distrutto il museo dedicato a Arkhip Kuindzhi, il limpido, onirico paesaggista «ambulante» delle terre ucraine, nato a Mariupol’ nel 1841

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 3 aprile 2022
Arkhip Ivanovich Kuindzhi in un ritratto realizzato nel 1872 da Ivan Kramskoi

Esisteva un piccolo museo nella città di Mariupol’ che sarebbe potuto sorgere in qualsiasi luogo nella vecchia Europa: lo stile nel quale era stato costruito spiccava da quel medesimo ceppo che, si chiamasse art nouveau o jugendstil, sembrava essere stato concepito apposta perché, una volta ammirato nelle Esposizioni Universali, potesse poi essere ricopiato, con alcuni adattamenti, in qualsiasi parte del globo.
La palazzina aveva visto, infatti, la luce nel 1902, originariamente come dono di nozze alla figlia di un noto mecenate locale, e tale era rimasta per molti anni fino a quando, in tempi assai più recenti, le autorità cittadine non decisero di designarla come sede dell’Arkhip Kuindzhi Art Museum.
Credo che pochi fra i lettori saprebbero associare al nome di questo pittore qualcosa di preciso. A chi abbia visitato il Metropolitan Museum di New York potrà essere forse capitato di notare una tela di grande formato, una landa rada, imbevuta d’occidua quiete: Tramonto rosso sul Dnepr, quasi una visione interiore che l’artista dipinse all’inizio del Novecento, ma difficilmente una simile ventura sarà capitata ai frequentatori dei musei europei, che raccolgono pochissimi dei suoi lavori.
D’origine greca, Kuindzhi era nato proprio a Mariupol’ nel 1841, aveva studiato pressoché da autodidatta ed era stato amico del più famoso Il’ja Efimovich Repin, la cui grande tela Sadko forse qualcuno ricorderà per i suoi insoliti e maliosi scintillii. Anche questo legame con Repin – che dell’amico ci ha lasciato un ritratto – non sarebbe, tuttavia, di grande aiuto a chi non l’avesse vista per farsi un’idea anche sommaria dell’opera di Kuindzhi. Le tele del primo, così vigorose e corrusche, gremite d’uomini, d’abiti e stoffe, hanno, infatti, poco in comune con gli spogli paesaggi del secondo. E ciò, malgrado entrambi avessero aderito al movimento degli Ambulanti, come fu chiamato quel gruppo d’artisti che respinse i soggetti convenzionali dell’accademica e si dette a sciamare per le campagne nel tentativo di portare l’arte, come una sacra eucarestia, a un popolo sordo e affranto, rotto a una fatica più che secolare.
C’è chi ha paragonato questa corrente della pittura ottocentesca al movimento dei Nazareni perché anche questi, come gli Ambulanti, avevano subordinato le questioni formali a quelle spirituali e creduto che il rinnovamento della pittura dovesse passare innanzitutto dall’animo dell’artista. I primi si lasciarono crescere la zazzera e si dettero a lavorare in una cella, i secondi si logorarono le scarpe errando per i campi e per le strade sdrucciolevoli di mota. Gli uni non si credevano «altro che operai di Dio», come Wackenroder aveva detto di Dürer; gli altri, invece, si sentivano servi del popolo. Eppure, quanto diversi furono gli esiti! Difficilmente troveremmo tra gli Ambulanti quei colori tenui, soavemente slavati, che si possono ammirare nelle stanze di Villa Giustiniani al Laterano, affrescate da pittori come Schnorr von Carolsfeld o come Johann Friedrich Overbeck, dove anche le più rabide battaglie assumono un tono lirico e vagamente arcadico. In luogo di questi troviamo invece colori crudi, ora sordi, ora eccessivamente squillanti, ma soprattutto un’ampiezza di soggetti che dalla storia locale varia nel racconto delle miserie contadine e nella contemplazione attonita dei paesaggi natii. Ora vediamo la pittura modulare il canto della vita tapina, ora quello della natura vergine. La tecnica, s’è detto, doveva seguire; ma, seguendo, riguadagnò presto terreno, stimolata dall’esempio della scuola di Barbizon e di Courbet.
In Kuindzhi notiamo una composizione semplificata e alleggerita che ricorda alle volte i grandi lavori degli impressionisti. Ma codesti contributi non vanno esagerati. Se per un attimo allarghiamo lo sguardo, osserviamo questo rinnovato interesse per la vita rustica delle campagne esprimersi già in una delle più belle pagine di Turgenev, quando l’Arkadij di Padri e figli, di ritorno da Pietroburgo, osserva i dintorni e un sentimento panico sembra innalzare ogni cosa: «Tutto intorno doratamente verdeggiava, tutto ampliamente e mollemente ondeggiava e riluceva sotto il quieto alito del tiepido venticello, tutto: alberi, cespugli ed erbe; ovunque effondevano lunghi getti canori le allodole; i vannelli ora gridavano, aleggiando sui prati supini, ora correvano in silenzio da una zolla all’altra; nereggiando bellamente tra il verde soave del grano ancora basso, passeggiavano le mulacchie; si perdevano tra le messi, già leggermente imbiancate; solo di rado si mostravano le loro teste nelle onde fumose». Si tornava alle campagne, stanchi dell’accidia cittadina, come di una vita sofisticata e insincera.
Anche Kuindzhi si univa a questo afflato collettivo, ma la natura ch’egli più amava era quella dei paesaggi ucraini: i boschi di betulle, le anse del fiume Dnepr, così cerulee e calme, che la notte si accendevano alla luna di un fosforio di presepio, come in Serata in Ucraina (1878) e in Notte di luna sul Dnepr (1880) . Con composto sentimento lirico, ritrasse le strade piovorne con le quali si approvvigionava la città di Mariupol’ e le prode del Mar Nero sulle quali era nato. A volte, come gli impressionisti, compose diverse vedute dello stesso paesaggio, secondo il progressivo incedere della luce che egli sapeva piegare a effetti di un così prodigioso virtuosismo che un visitatore del tempo, dubitando che un riflesso tanto intenso potesse sprigionarsi dal quadro, vi girò intorno due volte nel tentativo di scoprire una lampada o qualche altro sommesso artificio proditorio. Ma codesto San Tommaso, che si comportò all’opposto degli uccelli di cui narra Plinio a proposito del pittore Zeusi, non dovette cogliere che l’epidermide dell’arte di un pittore per il quale la musicale unità luminosa e la semplificazione del paesaggio – che avrebbe determinato la sua fortuna presso i Simbolisti – erano soltanto dei mezzi per accentuarne la risonanza interiore.
Come i grandi romantici dell’Ottocento, Kuindzhi non lavorava interamente en plein air: il nervo ottico non era che la corda, la cui nota avrebbe poi vibrato nella cassa armonica dell’anima. I suoi tramonti, le carezzevoli visioni del mar di Crimea, nelle quali arbusti bassi si iscrivono appena nel celeste intenso delle acque, furono certo tratti dal vero, ma la maniera con la quale gli elementi, per mezzo dei valori luministici, vengono armonizzati ricorda quella «emotion recollected in tranquillity» di cui parlava Wordsworth: in Crimea (1900) il rilievo degli alberi sulla trasparenza delle acque è di una così immateriale suggestione da far pensare a un paesaggio inciso su un vaso di Daum o di Gallé, e così anche nei colli ancora imbevuti di pioggia, e nelle larghe prode ombreggiate dai monti, dove a prevalere sull’osservazione realistica è sempre il sentimento lirico della terra.
Oggi l’Arkhip Kuindzhi Museum non esiste più: giace, carcame di pietra, fra le macerie della città annientata. Fortuna ha voluto che le tele di Kuindzi non fossero lì al momento dei bombardamenti, ma non ha potuto sottrarre alla distruzione molti altri lavori conservati nel museo. La terra viene così distrutta assieme alla sua memoria spirituale, che le opere d’arte custodiscono. Virginia Woolf scriveva che uno fra i più spaventevoli aspetti della guerra moderna era la facilità con cui essa aveva reso possibile la distruzione di ciò che per secoli s’era creduto eterno. Le bombe rendono anche il bronzo e la pietra – bronzo e pietra alle quali gli uomini hanno affidato la loro diuturna memoria – periclitanti e friabili. Come una zolla, appunto. Tutt’uno con la terra devastata.

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