Alina è una signora ucraina di circa 70 anni che vive a Siversk e da due mesi dorme in cantina. Con lei ci sono altre anziane, come Valentina, che ha studiato un po’ di tedesco a scuola e ogni tanto ripete schlecht (male, ndr), e Olga con alcuni denti d’oro.

Siversk è l’ultima cittadina sotto il controllo ucraino a est, a sette km ci sono i russi e i territori del Lugansk occupati dopo la caduta di Lysychansk. Le salutiamo ma Alina dice subito «buongiorno… anche se c’è poco di ‘buono’, ci disturbano dalle 4 di stanotte con questi» e indica con il dito il cielo mentre i boati riempiono l’aria. Olga chiede se può dire parolacce e poi dice che è meglio di no e Irina sorride stanca e affabile.

«VOLETE VEDERE cosa hanno fatto alla mia casa?». La seguiamo fino alla palazzina adiacente e, mentre saliamo al quinto piano, ci indica le porte divelte o danneggiate. «Qui non c’è nessuno», ripete spesso, «qui una signora sola», «qui Olena» e la chiama, ma Olena non si affaccia. Al quinto piano Irina slega un pezzo di fil di ferro e di fronte a noi si apre una voragine.

L’ordigno ha colpito il punto del palazzo dove era l’ingresso della sua casa che ora è un piccolo corridoio all’aperto tra due resti di stanze senza mura. In mezzo il vuoto e sotto di noi il salone dei vicini completamente scoperto.

«Ecco, benvenuti», dice Irina mentre si sforza di non piangere. Torniamo in strada e una raffica d’artiglieria molto forte allarma tutti, le signore si alzano e si avvicinano verso l’ingresso delle cantine. Poi i boati cessano e tornano sotto la tettoia dell’ingresso, «così almeno facciamo ginnastica», dice Olga ridendo con i suoi denti scintillanti.

Alina solleva a fatica i suoi molti chili di troppo e ci fa cenno di seguirla. Vuole farci vedere dove hanno colpito nella notte ma, appena giriamo l’angolo del palazzo, ci rendiamo conto che l’ultimo attacco deve aver centrato qualcosa: una spessa coltre biancastra si sta alzando alle spalle della scuola n° 1, già bombardata un mese fa.

Due signore più giovani con i figli al seguito ci vengono incontro spaventate e Alina le precede: «È tutto a posto, hanno colpito lontano, non vi preoccupate». Parlottano un po’ e si capisce dal tono che l’anziana le sta rassicurando. «Colpiscono l’esercito – dice seria – Ecco».

UN’INTERA SEZIONE verticale del palazzo, con tanto di balconi e finestre è letteralmente colata sul prato incolto che faceva da marciapiede. Ai piani alti un uomo martella i vetri per far cadere gli ultimi frammenti e dal primo piano una signora lo osserva sconsolata da un infisso vuoto.

Al centro della strada c’è una bacinella blu di quelle da bucato con sopra due aste bianche. «Non avvicinatevi! – intima Alina – Bisogna aspettare 24 ore perché tutta la carica esplosiva si esaurisca». Lo dice con tanta convinzione che la ascoltiamo e intanto lei sposta le aste e solleva la bacinella scoprendo una buca di circa mezzo metro profonda altrettanto. «Minamiot», spiega, mortaio.

«Ma come fai a sapere tutte queste cose?», chiediamo. «Se vuoi vivere qui devi saperle». È chiaro che intende «sopravvivere». Torniamo di nuovo al cortile e un uomo molto accaldato si avvicina urlando qualcosa rispetto a un garage e un’automobile.

Credendo che voglia dirci di nascondere la nostra macchina, ci avviciniamo e scopriamo che è corso da noi perché vuole mostrare alla «stampa» cosa stanno facendo i banditi.

Lo seguiamo fino alla zona dei garage, delle costruzioni basse dietro il comprensorio residenziale e troviamo un nutrito gruppo di persone che discute animatamente. Appena ci scorgono iniziano a urlare e a lamentarsi. «Venite! Venite! Dovete vedere cosa hanno fatto, è la quarta volta che succede».

CI MOSTRANO dei lucchetti rotti e i segni di effrazione sulle porte di ferro dei garage e ci indicano dove c’erano alcune macchine che sono state rubate. «Vengono qui e se le prendono con la scusa che c’è una guerra». Chiediamo chi siano «loro».

«Sono banditi, hanno un accento dell’ovest e quando gli chiediamo perché lo fanno ci puntano le armi e ci dicono di stare zitti perché siamo solo dei moskalì (uno dei modi in cui gli ucraini chiamano i russi, ndr)». «Ma avete sporto denuncia?». «Abbiamo chiamato la polizia e da Bakhmut hanno mandato delle pattuglie, ma i poliziotti qui non si avvicinano e questi criminali continuano a fare come vogliono».

«IO SONO UCRAINO, sono nato qui, ho tutti i documenti, pago le tasse, perché il governo non mi protegge?», dice il più vecchio, anche il più arrabbiato. Mentre insultano e accusano chiunque a uno di loro viene un dubbio: «Pubblicherete le nostre facce?». Se non vogliono non lo faremo. «L’ultima volta che è venuta la stampa e abbiamo raccontato la situazione ci hanno bombardato”.

Torniamo verso i palazzi accompagnati da nuove raffiche di colpi pesanti. «Basta! – dice Sasha, uno dei pochi uomini presenti – È il momento».

Si alza, infila i guanti e, impugnata una sega di ferro, inizia a tagliare delle assi di legno qualche metro più in là mentre i rumori sono così forti da dare l’impressione che qualcosa si sia rotto sopra le nostre teste. Alina ci guarda comprensiva: «Bisogna tenersi occupati».

Mentre rischiamo di sfondare le sospensioni per evitare di restare sulla strada distrutta che porta a Soledar e poi a Bakhmut, i campi ai due lati sono in fiamme e diverse colonne di fumo confondono l’orizzonte. Appena recuperiamo il segnale internet arriva la notizia che Kramatorsk è stata bombardata.

UN COMPLESSO in centro è stato colpito da una bomba a caduta libera e almeno una persona è morta, mentre altre dieci sono rimaste ferite. Dalle colline prima della vallata di Slovjansk, il profilo di Kramatorsk è completamente coperto da un fungo bianco di fumo.