Riportare all’attenzione del pubblico i film di Kira Muratova è stata una scelta opportuna del Bergamo Film Meeting (11-19 marzo), ancora di più perché quei film che compongono l’omaggio alla regista di origini ucraine, realizzati tra la fine degli anni Sessanta e degli Ottanta sono quelli realizzati negli studi di Odessa, ognuno dei quali ha avuto un lungo oblio, censurati perfino violati con rimontaggi azzardati. Successivamente i suoi film realizzati in Occidente hanno avuto larga distribuzione, si sono come liberati, riempiti di colore e leggerezza.

I film che si vedranno a Bergamo sono rarità, magnifici esempi di linguaggio allusivo e ricco di riferimenti, vanno dalle pure atmosfere nouvelle vague all’intuizione di ciò che sarebbe successo in Urss poco dopo l’89 come si vide nei film di Lopushanskij o Aristakisyan.

«Non sopporto Tarkovskij, l’’artista martire’, non sopporto quando la gente dice: quanto avete sofferto. Io non ho sofferto per niente» diceva Kira Muratova che pure avrebbe avuto tutto il diritto di fregiarsi di quell’appellativo, messa a tacere per più di vent’anni dalla cinematografia dell’Urss, precisamente quella ucraina che faceva capo agli studi di Odessa dove lei lavorava. Eppure era considerata la più grande, «una regista fondamentale nel senso delle radici profonde» come diceva Sokurov, possedeva «un bisogno interiore di raccontare il mondo circostante» secondo Wajda. «All’inizio mi irritava la sua originalità, poi mi ha travolto» commentava German.

In quanto a lei, macchina di cinema («sono una persona programmata solo per il cinema»), il suo sogno era sparire e che restassero solo i suoi film. L’omaggio del Bergamo Fil Meeting comprende: Brevi incontri (1967), Lunghi adii (1971), Tra le pietre grigie (1983), Mutamenti del destino (1987), Sindrome astenica (1990).
Alcuni di questi, visti poco dopo la caduta del muro, ancora restano nella memoria trent’anni dopo perché lasciano una traccia nel profondo, senza raccontare storie, sviluppando con quel vecchio congegno miracoloso che è il montaggio che può dar vita a esplosioni emotive, concetti teorici, sottintesi, parallelismi e duri attacchi.

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Una componente decisa è la sottile messa in scena del punto di vista femminile fin da Brevi incontri, dove lei stessa è protagonista, funzionario che riveste un ruolo ufficiale nella comunità come responsabile dell’economia comunale, e il film inizia infatti in modo da una parte consueto ma del tutto inaspettato e umoristico con un «cari compagni», ripetuto più volte. Come a salutare il pubblico del film oltre a quelli che interverranno alla conferenza sull’agricoltura che deve tenere per convincere la gente a lasciare la città e tornare in campagna.

Ma la stesura della conferenza non procede. Nel film si sviluppa il lato non ufficiale, ma quello sentimentale dei rapporti tra la funzionaria e il geologo (interpretato da Vysockji, il grande cantante dei diseredati e dei fuorilegge, che inizierà proprio in quegli anni ad avere problemi con le autorità). A cui si aggiungono i sogni della servetta venuta dalla campagna.

I flashback funzionano da batticuore, le poche frasi lanciate come coltelli a centrare il politicamente corretto per evidenziare cosa era accettato o meno dalla società, i ruoli dei due protagonisti, da una parte la donna determinata e abituata a comandare («non sopporto le donne, sempre a lamentarsi»), ma che non può fare a meno di aspettare l’uomo incline all’avventura che va via e non si sa se ritornerà.

Il gioco dei ruoli sarà sempre presente nei suoi film in un modo o in un altro, quasi sempre mettendo al centro il punto di vista della donna – questa inusuale ottica cinematografica – o con un gioco di maschi/femmine come in Passioni (1994) magnifico tour nell’ippodromo, tra fantini presi da febbre da cavallo, malinconiche infermiere sexy e ragazze del circo danzanti.

In Lunghi addii (1971) la composizione dialettica è tra una madre apprensiva, un po’ invadente, ritratta con mille sfumature (Zinaida Sharko proveniente dal teatro, suo esordio nel cinema) e un figlio adolescente alla scoperta della sensualità. Tra i due Muratova mantiene un difficile e perfetto equilibrio nel raccontare l’amore materno, la femminilità e l’erotismo nascente del figlio alla ricerca di una sua individualità, di un modello maschile con cui non può confrontarsi, poiché le figure maschili di riferimento sono lontane, come il padre archeologo sempre assente.

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Delicato, divertente e ricco di riferimenti allo stile di vita di uno stato sociale piuttosto benestante, il film fu bloccato per decisione del comitato centrale del partito, con la distruzione di copie del film. Il pubblico dissero, trovava insultante il modo con cui veniva descritto il suo modo di vivere «e la cinematografia sovietica deve sempre tenere in conto il giudizio del pubblico e così farà sempre in futuro».

Ricordiamo di aver visto Tra le pietre grigie (’83) alla fine degli anni ’80 con uno sbalordimento che rimane intatto nel corso degli anni. Non si era mai visto prima in un film sovietico il sottosuolo, l’emarginazione, visitatI in maniera così drammatica.

Nella Polonia del XIX secolo Vasja, il figlio del giudice, rimane orfano di madre e mentre il padre si chiude nel suo dolore, comincia a esplorare la città e diventa amico di un piccolo mendicante che vive nel sottosuolo di una chiesa diroccata insieme ad altri membri della famiglia e altri personaggi che vivono di espedienti o di glorie di un passato remoto.

Il film è basato su un celebre libro per ragazzi dell’ucraino Korolenko e sarebbe dovuto rimanere, secondo i dirigenti dello studio, un film per ragazzi (abbiamo tanti esempi nelle cinematografie comuniste di registi scomodi spostati nel reparto meno pericoloso di film per ragazzi).

Nonostante il film sia stato rimontato dagli studi Odessa, per ordine del Goskino ucraino sotto il controllo del Goskino sovietico (passaggio canonico per ogni film) resta intatto il tocco della regista, perché risulta lampante il messaggio didattico sovrapposto.

Il film non fu riconosciuto da Muratova e per questo fu firmato con il comunissimo pseudonimo di Ivan Sidorov. La vicenda assai complicata terminò con il licenziamento della regista «per incapacità», dopo vari richiami per «assenza di disciplina». La prima versione andò perduta, furono distrutti tutte le scene tagliate dal montaggio, e dopo la riabilitazione della regista nel 1988 il film ricominciò a circolare.

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Negli archivi del Goskino si può trovare tutta la complessa storia di questo travagliato lavoro, tra le altre cose si trova l’accusa di indisciplina rivolta alla regista che ribatteva punto per punto alle richieste dei capi che volevano un film più composto, meno pessimista, meno crudo, dove la gente parlasse un linguaggio pulito e i mendicanti non fossero così poveri.

Sindrome astenica (1990) è stato l’ultimo suo film realizzato in Urss dalla regista, un film che segue diversi personaggi, ha degli scarti imporovvisi di racconto, come una moltiplicazione dei possibili elementi di scontro con le autorità.

Oltre a un incipit in qualche modo allusivo delle sue esperienze con il partito, circola nelle scene un pessimismo diffuso a piene mani, protagonisti diversi e non omologati, disobbedienti: una dottoressa che lascia il lavoro, i poveri per le strade, un professore che vorrebbe fare lo scrittore ma non inizia mai a scrivere e si lamenta della sua classe ottusa. Una disturbante visita al canile dove animali disperati e macilenti sono imprigionati dietro le sbarre arriva a mettere un punto fermo e chiaro sullo stato della disastrata società circostante, in piena perestroika.