Incredulità, sbigottimento, come in Italia. La famiglia Qaisi nel campo profughi di Azza, alle porte di Betlemme, racconta di essere rimasta «molto sorpresa» dall’arresto di Khaled El Qaisi, il ricercatore italo-palestinese arrestato lo scorso 31 agosto dalla guardia di frontiera israeliana, per motivi che restano ancora sconosciuti, al valico di Allenby tra Cisgiordania e Giordania mentre era al controllo dei bagagli assieme alla moglie e al figlio di quattro anni. Parenti, amici, conoscenti dicono che il giovane ha semplicemente trascorso le vacanze nei luoghi dove era cresciuto da ragazzo. Ed era poi ripartito per la Giordania, da dove sarebbe rientrato a Roma. Come tutti i palestinesi dei Territori occupati – Khaled El Qaisi lo è per la legge militare israeliana, essendo nato in Cisgiordania – per viaggiare in aereo ha dovuto prenotare un volo ad Amman e non al più vicino aeroporto di Tel Aviv. Lo stesso percorso, all’inverso, lo aveva fatto all’andata. Poi l’arresto, improvviso, davanti agli occhi del figlio e della moglie. Da allora più nulla. Non è servita a rendere note le accuse che Israele muove al ricercatore la crescente mobilitazione a suo sostegno in corso in Italia e che ora comincia a coinvolgere anche alcune forze politiche come il M5S e i partiti della sinistra. Mobilitazione che è comunque stata molto utile per spingere la Farnesina a non trascurare il caso.

Khaled El Qaisi è riapparso ieri nel Tribunale di Rishon Lezion, non lontano da Tel Aviv. È in buone condizioni, secondo quanto abbiamo appreso. Lo assiste un avvocato arabo israeliano (palestinese d’Israele) Ahmed Khalifa che ha spiegato al manifesto al telefono «di non poter rivelare alcun particolare del procedimento in corso per ordine dei giudici» e che «continuerà a garantire il diritto alla difesa di Khaled El Qaisi». Durante l’udienza, il procuratore israeliano ha rivolto al ricercatore diverse domande su vari aspetti della sua permanenza in Cisgiordania. Poi, al termine dell’udienza, cominciata con diverse ore di ritardo rispetto al previsto, la Corte ha prolungato la detenzione fino al prossimo 14 settembre. Nel frattempo, vanno avanti le indagini. La Farnesina dopo l’udienza ha diffuso un comunicato in cui descrive El Qaisi come un «detenuto in attesa di giudizio». Non è semplice prevedere l’evoluzione del caso. Pochi credono che il ricercatore italo-palestinese tra una settimana sarà scarcerato e mandato in Italia. Non poco dipenderà dalle pressioni che farà il governo di Giorgia Meloni su quello «amico» di Benyamin Netanyahu. Resta il mistero delle accuse che vengono rivolte al ricercatore italiano.

«In quella che ancora viene spacciata come la ‘sola democrazia mediorientale’ è detenuto dal 31 agosto scorso un cittadino italo palestinese, stimato ricercatore universitario in Italia, colpevole di sostenere i diritti del suo popolo» denuncia Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, coordinamento di Unione Popolare, che a nome della sua formazione politica chiede che «L’Italia ritiri l’ambasciatore se il governo israeliano non rilascerà il nostro connazionale. Così come ci siamo mobilitati – aggiunge – per la liberazione dello studente Patrick Zaki con la stessa determinazione bisogna farlo perché Khaled possa tornare presto al proprio lavoro e dai propri cari». Nicola Fratoianni primo firmatario di una interrogazione parlamentare rivolta al ministro degli Esteri Tajani dall’Alleanza Verdi Sinistra, sottolinea che «Nonostante abbia trascorso numerosi giorni in stato detentivo, sono ancora poche le notizie che si hanno riguardo al suo stato di salute fisico-psichica e al tenore delle accuse che vengono mosse» a Khaled El Qaisi. Sul caso è intervenuto anche il M5S. La deputata Stefania Ascari chiede che «le autorità italiane si attivino per tutelare i diritti di un proprio cittadino. No a un altro caso Zaki».