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Jean Giono, non per pacifismo, ma per amore del vero

Jean Giono, non per pacifismo, ma per amore del veroLucien Jacques, «Marsiglia», 1932

Scrittori francesi Smentendo la grandeur bellicista dell’evento storico, Jean Giono riepilogò una «battaglia epocale» e la descrisse come un «tafferuglio a casaccio»: «Il disastro di Pavia 1525. La sconfitta di Francesco I in Italia», da Settecolori

Pubblicato circa un anno faEdizione del 24 settembre 2023

«Le epoche stingono sugli uomini che le attraversano» scriveva Balzac in uno dei suoi romanzi. Grande ammiratore della Commedia Umana, Jean Giono tentò persino di emularla progettando un ciclo romanzesco, al quale appartiene il suo romanzo più celebre, L’Ussaro sul tetto. Certamente ha ben presente questa massima balzachiana quando compone un saggio storico di difficile collocazione all’interno della sua vasta produzione letteraria. Verso la fine degli anni Cinquanta Gallimard aveva lanciato una collana pomposamente intitolata Le trenta giornate che hanno fatto la Francia. Destinata a un pubblico colto, sebbene non specialista, la collana conta fra i suoi autori grandi nomi della storiografia, ma anche scrittori appassionati di storia: Giono è uno di questi. Gli fu commissionato il volume dedicato a Il disastro di Pavia 1525: la sconfitta di Francesco I in Italia (traduzione di Franco Pierno, prefazione di Giuseppe Scaraffia, e postfazione di Franco Cardini, Settecolori, pp. 380, € 25,00). L’autore avrebbe preferito intitolarlo più sobriamente La battaglia di Pavia; ma preferì non impuntarsi sul titolo, perché già i contenuti del suo libro smentivano efficacemente la supposta grandeur dell’evento, dimostrando come quella che passava per una battaglia epocale era stata, in realtà,  solo «un tafferuglio a casaccio»; e i suoi protagonisti certamente non avevano pensato di «mettersi in posa per i posteri» pronunciando le grandi frasi a effetto tramandate dai rimaneggiamenti posteriori.

Per cominciare Giono si documenta in modo impeccabile, mettendo a confronto le diverse relazioni, ben venti, redatte da coloro che hanno partecipato alla battaglia. Da questi scritti discenderanno i numerosi resoconti successivi; ma già queste fonti sono estremamente contradditorie fra loro.  Dunque, Giono pensa di andare di persona sui luoghi della battaglia, per ricostruire le posizioni occupate dalle varie forze in campo; pensare a spagnoli contro francesi significa applicare un concetto nazionale inesistente all’epoca. Gli spagnoli difendevano la città italiana arruolando lanzichenecchi tedeschi, mentre Francesco I la attaccava con un esercito composto da svizzeri, italiani, corsi, tedeschi e «alcuni francesi». Tutti mercenari, beninteso. Soprattutto, lo scrittore francese si interessa al meteo, che non riporta affatto «la chiara e fredda mattina di febbraio» tramandata dagli storici francesi ottocenteschi, la cui idea del clima invernale nella pianura Padana era molto approssimativa. Giono va a consultare persino gli epistolari dei mercanti dell’epoca e trova la conferma di quel che pensava: erano giornate piovose e c’era un gran nebbione, su quella porzione di pianura percorsa da fiumi e canali e tutta inzuppata d’acqua, vale a dire nessuna visibilità e un terreno pesante e fangoso che non reggeva il peso dei cavalieri corrazzati nelle loro armature. La supposta grande battaglia è un guazzabuglio in cui non si vede nulla, e nessuno capisce cosa stia succedendo, tanto è vero che il re esce allo scoperto e carica con la sua cavalleria convinto di avere già vinto. La scena ricorda la confusione di Waterloo nella celebre scena della Certosa di Parma, una serie di movimenti insensati che Fabrice del Dongo non riesce a comprendere. Il modello stendhaliano è senza dubbio presente in queste pagine, come in quelle dedicate al mito di un’Italia fatta di individui dotati di energiche passioni: «essere uomo in Italia è il sogno di ogni intelligenza europea».

Benché scritto su commissione, in questo libro convergono, in fondo,  tutti gli elementi cari a Giono scrittore e romanziere: l’amore per la natura gli ispira pagine splendide dedicate al susseguirsi delle stagioni nella pianura lombarda da lui visitata a più riprese per documentarsi: «L’inverno è immobile. – scrive – Dapprima è un braciere di freddo, fumante come un braciere di brace. Da tutti i prati, da tutti i tronchi, da tutti i ruscelli, trasuda la foschia, con un movimento che è paradossalmente il colmo dell’immobilità, nella perfetta calma di un’aria di marmo. Tutto serve d’appoggio a queste nebbie che si posano, se ne vedono masse enormi aggrappate alla barba secca delle ortiche, in equilibrio sulla punta della lanugine della bardana, arrotolate intorno al tronco dei pioppi, che si gonfiano sul posto, lasciando sgombro il suolo, dove si vedono milioni di fili bianchi raddoppiare tutte le foglie dell’erba e diventare, più in alto, un latte che cancella ogni cosa ad altezza d’uomo».

La demistificazione della battaglia può rimandare al pacifismo maturato da Giono dopo la traumatica esperienza della prima guerra mondiale, che gli costò un arresto nel 1939. Ma in primo piano sta il senso della storia, il metterci in guardia dall’interpretare le guerre del passato con criteri moderni, come se vi si partecipasse «per costrizione». Nel Cinquecento la guerra è un’avventura e un divertimento: soprattutto per chi – come Francesco I – possiede ancora una mentalità cavalleresca e la alterna disinvoltamente con la caccia e le avventure amorose. Per Giono la storia prende senso solo retrospettivamente, ammesso che un senso lo si voglia trovare «e questa volontà è solo una frivolezza». Con la sua penna corrosiva, smaschera la retorica che ha circondato Francesco I e Carlo V, e addebita il loro scontro a temperamenti opposti, a loro volta incarnazione di due epoche: raffigura Francesco come  «il galletto di strada», idolatrato dalle donne, prode e seducente cavaliere che tutto il secolo ammira anche nella disgrazia e nella prigionia. Ma di fatto, Francesco incarna il passato, mentre Carlo V è dalla parte della modernità che avanza: l’imperatore è un borghese sedentario in un mondo ancora nutrito di epica cavalleresca, che si rimpinza di cibo e non vuole rischiare di cadere prigioniero sul campo di battaglia. Anche la sua abdicazione è in fondo una scelta molto borghese, che lo fa somigliare a un tranquillo pensionato nella sua villetta in periferia. Quanto al fatto che volle assistere ai propri funerali celebrati in anticipo, se l’interpretazione corrente vi ha letto il grandioso confronto con le tenebre della morte, Giono ci vede solo l’episodio di  una «televisione metafisica».

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