Ius soli, digiuno contro la rinuncia e l’indifferenza
Chi mi vuol bene mi segua. Ma anche chi non mi vuole bene, e persino chi mi detesta. Tutti coloro, insomma, che ritengono lo ius soli e culturae una legge […]
Chi mi vuol bene mi segua. Ma anche chi non mi vuole bene, e persino chi mi detesta. Tutti coloro, insomma, che ritengono lo ius soli e culturae una legge […]
Chi mi vuol bene mi segua. Ma anche chi non mi vuole bene, e persino chi mi detesta. Tutti coloro, insomma, che ritengono lo ius soli e culturae una legge saggia e ragionevole sono invitati a partecipare allo sciopero della fame che intraprendo da oggi.
Digiuno che inizio oggi, martedì 19 dicembre, e proseguirò fino a quando ci sarà un’ora o un minuto di tempo per la discussione parlamentare. Non è affatto vero, infatti, che il tempo non ci sia. Quando c’è la volontà politica, il tempo si trova sempre. Si ha a disposizione un’intera settimana di lavoro parlamentare, prima del giorno di Natale, e si può ricorrere, come tante volte è accaduto, alle sedute notturne.
Dunque, si può fare: e c’è una conferma limpida e recentissima.
La legge sul biotestamento sembrava destinata, appena due mesi fa, a un’archiviazione definitiva, in attesa di tempi migliori. Si è manifestata, invece, una volontà politica, che è stata perseguita con determinazione, e che ha portato a un ottimo e insperato risultato. Non si è voluto fare altrettanto con la legge sulla cittadinanza, per calcoli piccini e per una inveterata codardia. Si è arrivati, così, agli sgoccioli di una legislatura che avrebbe potuto dare frutti migliori, ma che ancora, e nonostante tutto, lascia tempo e spazio – per quanto esili – a un ultimo tentativo. Guai a sprecarlo. Da qui la decisione dello sciopero della fame.
È, il mio, un atto di testimonianza meramente simbolico?
Non credo proprio. E non lo credo per due ragioni.
La prima: perché il tempo e i numeri, come si è detto, ci sono.
A patto, certo, che si abbia la volontà di perseguirli. E, dunque, questa opportunità, per quanto flebile, va verificata fino all’ultimo. Non farlo significa rendere ancora più grave e mortificante la sconfitta: non certo uscirne con eleganza. E va evitato, soprattutto, che il tema della cittadinanza venga archiviato – e affossato in un silenzio mediocre e in un fatalismo cinico.
La seconda ragione che mi induce allo sciopero della fame nasce dal dolore recente per la morte di Alessandro Leogrande. In una delle sue pagine più belle, a conclusione de La frontiera, il giovane scrittore pugliese – di fronte al martirio di San Matteo del Caravaggio – parla dell’enigma del non agire. Quella sindrome, cioè, che produce rinuncia e indifferenza, impotenza di fronte all’ingiustizia e smarrimento morale. Un enigma terribile, abissale e, per certi versi, indecifrabile.
Ma così gravido di conseguenze da indurre a considerare l’agire e l’azione politica, nelle forme oggi possibili, come la più ineludibile e urgente delle scelte.
E la più razionale.
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