Cultura

«Italiani Ovunque», a Venezia nel ricamo di viaggi mutevoli

«Italiani Ovunque», a Venezia nel ricamo di viaggi mutevoliLina Bo Bardi, «Cavaletes de vidro», 1968/2024, 60. Esposizione Internazionale d’Arte - La Biennale di Venezia, «Stranieri Ovunque», foto di Marco Zorzanello, Courtesy: La Biennale di Venezia

MOSTRE Biennale Arte, il nucleo storico alle Corderie dell’Arsenale. Da Lina Bo Bardi a Gianni Bertini, Anna Maria Maiolino e Claudio Perna

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 23 agosto 2024

Si dirà che il nucleo storico Italiani Ovunque alle Corderie dell’Arsenale di questa Biennale Arte di Venezia è autoreferenziale. Il curatore brasiliano Adriano Pedrosa replica il display espositivo dell’architetta e scenografa italiana Lina Bo Bardi alla pinacoteca del Museo d’Arte di San Paolo (MASP), celebrando così se stesso, che da direttore del medesimo museo l’ha ripristinato, dopo un infelice ritorno all’austerità negli anni Novanta.
Ma il doppio reenactment di questo allestimento, a Venezia e a San Paolo, ha valori e valenze da esplicitare.

Prima di tutto, in un’epoca di spazi artistici marcati dalla volontà di «musealizzare le assenze», di porre al centro e commemorare gli esclusi, secondo l’indicazione più recente dell’ICOM (International Council of Museums) per un museo «diverso, inclusivo e plurale», il dispositivo di Bardi fa capire che anche un esterno può rappresentare una minoranza, quando ha la sensibilità per farlo. Nel 1968 un’italiana a San Paolo ha inventato un display alternativo al classico modo europeo di esporre, cioè all’infilata cronologica di quadri appesi alle pareti.

I SUOI LEGGENDARI «cavalletti in vetro», sparsi in un ambiente libero da partizioni, permettono di osservare i frutti di varie tradizioni a tutto tondo. Nel compiere percorsi non lineari e indeterminati, sembra di trovarsi in una salubre foresta brasiliana. Anche a confronto con l’«evoluta», asfaltata e commercializzata Avenida Paulista, la pinacoteca del MASP esprime uno spazio e un’idea dello spazio rimossi e qui finalmente valorizzati.
A Venezia Pedrosa adotta questo allestimento per ricordare le migrazioni di artisti italiani in Sudamerica. Emergono sentimenti di rancore e nostalgia, tentativi di riscatto, di ispirazione dai grandi maestri o di traduzione delle culture locali. Anna Maria Maiolino, ospite per la prima volta alla Biennale e insignita del Leone d’Oro alla carriera, presenta, su carta, Anno 1942 (1973, serie Mapas Mentales): la sagoma del bel Paese interamente cancellata, sbiancata nel periodo dei bombardamenti, reca ai bordi i segni della bruciatura. Un’altra rappresentazione geografica è Venezuela – Map Series (n.d.), di Claudio Perna: tre fotocopie, la prima in alto a sinistra con gomitoli di un tessuto tipico, la seconda in basso di una mano che stringe un paio di forbici, la terza a destra con il petto di un uomo, sono incollate su una riproduzione del territorio venezuelano, al confine con la Colombia. La fotografia ingrandita di una vertebra in basso a sinistra, sotto la scritta

VENEZUELA, fa pensare alla ricerca e alla costruzione di una propria identità altrove.
In una Biennale in cui il ricamo è un’arte prioritaria, per raffigurazioni iconiche o astratte, colpisce poi La Toile de Penelope (1959), il collage tessile di Gianni Bertini e della moglie Licia Monesi. La cucitura di pezzi rettangolari rosa con brandelli neri, lacerti rossi e gialli, fili e punti dritti racconta le contraddizioni dell’espatrio, tra evasione e desideri di rientro. Se qui l’Informale di Burri nutre una poetica autobiografica, restituendo una mappa delle difficoltà del viaggio, Pintura o Circulo negro (1963) di Clorindo Testa, al centro della sala e forte dei richiami a Lucio Fontana, anela ad avere una valenza universale. La sfera nera e materica, avvolta da aloni grigi e graffiata da incisioni, interroga infatti sul buio nella scelta di ogni trasferimento duraturo.

MA PER MOLTI ITALIANI, che all’estero spiccano per capacità di dialogo, di creazione e riflessione, funziona il motto nemo propheta in patria. Così Araucárias (1973), di Amadeo Luciano Lorenzato, oltre a essere un’opera metatestuale dell’arioso allestimento di Bardi, apre gli occhi sul “progresso” urbanistico a scapito delle foreste. In questo olio su tavola ombre nere in diagonale su fondo arancio ci separano e uniscono ad alberi che le proiettano. Sono araucarie, conifere sacre per alcuni popoli indigeni ma abbattute a fini edili, come si evince dal tronco cancellato. L’artista italiano firma sull’ombra di un albero ancora presente, in difesa di quella zona di respiro necessaria per la fruizione artistica e per la vita.

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