Sono spiacevoli i dati dell’Istat relativi al reddito delle famiglie e delle società nel quarto trimestre del 2022. Il reddito disponibile dei «consumatori», nel periodo compreso tra ottobre e dicembre, è aumentato dello 0,8% rispetto al trimestre precedente, con una crescita dei «consumi finali» del 3,0% (si intendono i consumi per il diretto soddisfacimento dei bisogni individuali o collettivi).

A questi incrementi, nondimeno, ha fatto da contraltare un brusco arretramento del potere d’acquisto delle famiglie: -3,7%. Il motivo sta nella forbice tra livelli salariali e reddituali da un lato e dinamica dei prezzi dall’altro. Un problema che persiste. L’indice generale è sceso a marzo al 7,7% dal 9,15% di febbraio, ma l’inflazione relativa ai beni alimentari, a quelli per la cura della casa e della persona (il «carrello della spesa») rimane inchiodata al 12,7%. Insomma, i prezzi dei beni energetici sono calati, ma fare la spesa è ancora un problema per milioni di famiglie. Prezzi alti, redditi che ristagnano, risparmi che crollano.

«La propensione al risparmio è stata pari al 5,3%, in diminuzione di 2,0 punti percentuali rispetto al trimestre precedente», ricorda ancora l’Istituto di statistica. Significa che i lavoratori, le famiglie, sono costretti a spendere quasi tutto il proprio reddito per l’accesso ai beni essenziali ed ai servizi. Il passo successivo è indebitarsi per mangiare, vestirsi, mandare i figli a scuola. Uno scenario «americano». Ma il dato è in controtendenza rispetto agli altri paesi Ue, dove, nello stesso periodo, si è registrata, al contrario, una ripresa del tasso di risparmio.

Se lavoratori e pensionati piangono, in Italia c’è però anche chi sorride. Le imprese, per esempio. La quota di profitto delle società non finanziarie, infatti, è aumentata dell’1,9% rispetto al trimestre precedente, portandosi al 44,8%. Hanno approfittato dell’inflazione. Profitti che crescono, investimenti che calano. È sempre l’Istat a sottolineare come il tasso di investimento, al 24%, sia diminuito dello 0,4% rispetto al trimestre precedente. Nonostante tutte le politiche accomodanti verso le imprese – incentivi, sgravi, fondo perduto, crediti d’imposta – degli ultimi anni.

Questi dati sono spiacevoli non soltanto perché descrivono la situazione di difficoltà dei ceti popolari, ma anche perché rivelano lo scollamento tra paese reale e politiche pubbliche. Dimostrano quanto siano insensate ed inique, in questa fase, certe misure pro-impresa, come quelle che da ultimo ha varato il governo Meloni. Meno tasse, incentivi per le imprese che assumono e che investono, tagli al cuneo fiscale, tasse piatte. Andiamo avanti così da più di vent’anni. Nell’idea, sbagliata, che assecondando l’egoismo dell’imprenditore, si farà il bene di tutta la società. Ma i fatti sono più duri di certe convinzioni malsane. Le imprese italiane hanno preso soldi a bizzeffe in questi anni, ma ad aumentare sono stati solo i loro profitti. Non è aumentato il lavoro stabile, non sono cresciuti né i salari, né gli investimenti. Bisognerebbe puntare su politiche redistributive, ma il governo pensa all’imposta unica sui redditi. Unica per i ricchi e per i poveri, in barba alla Costituzione.

Riguardo ai conti pubblici, nella nota dell’Istat si dice anche che il «saldo primario» è migliorato rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Significa che lo stato ha accorciato la distanza tra quanto raccoglie dalle tasse e quanto spende per la collettività.
Una volta questo si chiamava «austerità», che poi è come dire meno stato e più mercato, come piace alla destra che governa.