Gaza in macerie, Cisgiordania sigillata: a 38 giorni dall’attacco di Hamas in territorio israeliano e l’avvio dell’operazione militare contro la Striscia, l’economia palestinese è a pezzi.

Lo certifica l’Onu, in un rapporto del programma Escwa: un aumento del 20% di persone sotto la soglia di povertà (+34% se l’offensiva dovesse proseguire per un altro mese), crollo del Pil del 4,2% (-8,4% nel caso di prolungamento), incremento della disoccupazione con 390mila posti di lavoro in fumo.

Perdite «senza precedenti», secondo l’Undp, se si pensa che l’economia ucraina cala ogni mese dell’1,6% e se si guarda lontano, alla necessaria ricostruzione di Gaza dove la metà delle case non c’è più, figurarsi le infrastrutture.

Ne abbiamo parlato con l’economista palestinese Basel Natsheh, capo del Business administration department all’Higher Colleges of Technology di Abu Dhabi.

Facciamo un passo indietro. Negli ultimi anni Israele ha garantito un numero sempre maggiore di permessi di lavoro per i palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Qui in particolare si è assistito a un piccolo boom: zone residenziali, nuove attività commerciali, esplosione dei servizi. Qual era la politica israeliana in merito?

Negli ultimi anni Israele ha autorizzato l’ingresso di un numero maggiore di lavoratori per calmare la Cisgiordania e creare una sorta di auto-rigetto di qualsiasi movimento di resistenza, soprattutto nel nord della Cisgiordania, a Jenin e Nablus. In cambio riconosceva ai palestinesi un po’ di prosperità, di benessere socio-economico, soprattutto in un contesto di saturazione del mercato del lavoro palestinese a causa delle restrizioni all’economia interna. C’è da dire che l’economia israeliana ne ha beneficiato: molti dei lavoratori palestinesi avevano un permesso di lavoro ma non un contratto, quindi nessuna assicurazione né diritti, costavano pochissimo ai datori di lavoro.

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Con il 7 ottobre la situazione è cambiata radicalmente. Le prospettive per il futuro sono disastrose.

Il 7 ottobre ha polverizzato tutto. A Gaza ovviamente, ma non ha senso parlarne oggi: l’economia della Striscia non esiste più al momento, è impossibile parlare di economia mentre è in corso un massacro di civili. In Cisgiordania assistiamo già a un impoverimento di massa: le città sono isolate tra loro, come un arcipelago, non ci si può muovere per lavorare né per distribuire beni e prodotti. I dipendenti pubblici già prima del 7 ottobre ricevevano solo l’80% del salario, ora Israele ha sospeso il trasferimento di tasse palestinesi all’Autorità nazionale, un modo per metterla sotto pressione e indebolirla ulteriormente. Inoltre mancano i beni di prima necessità: in Cisgiordania si produce solo il 20% del cibo consumato, il resto arriva da compagnie israeliane. Frutta, verdura, carne non sono disponibili come prima. L’economia palestinese non esiste davvero, è sotto occupazione, non ha alcun controllo dei confini e della produzione, ma quel poco che esisteva oggi è fermo. È difficile lavorare anche per quelle comunità agricole e pastorali che vivevano di campi e greggi: gli attacchi dei coloni nella stagione della raccolta delle olive sono moltiplicati, colpendo duramente la capacità di sussistenza delle famiglie. Se è vero quanto dice l’Onu che parla di una perdita di Pil dell’8%, la situazione è catastrofica. La maggioranza delle persone finirà sotto la soglia di povertà, in una situazione in cui già prima del 7 ottobre in molte città della Cisgiordania, come Hebron, la mia città natale, l’elettricità non era disponibile tutto il giorno e Israele apriva le condutture dell’acqua solo una volta al mese.

In tale contesto come si inserisce l’Autorità nazionale, protagonista di due decenni di politiche neoliberiste?

L’Anp è incapace di realizzare un qualsiasi programma o soluzione. Ha perso credibilità agli occhi della società palestinese che la considera uno strumento dell’occupazione. E non vedo nemmeno iniziative serie dalla comunità internazionale in termini di alleviamento della povertà o della disoccupazione. Nei primi giorni dopo il 7 ottobre molti governi europei hanno annunciato un taglio degli aiuti all’Anp, il loro tradizionale partner. Andava comunque punito a loro avviso. Sono lontanissimi i tempi di Oslo quando il mondo investì nell’Anp e nei progetti economici interni.

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Difficile parlarne ora ma Gaza è devastata e andrà ricostruita per intero. Secondo molti analisti, l’obiettivo di Israele è una distruzione talmente ampia da tenere occupati i palestinesi per anni.

Dipenderà dai reali piani di Israele. Se è quello di sfollare i palestinesi e deportarli dalla Striscia, questo darà il via libera ai coloni: Israele ricostruirà per dare terre ai coloni. Se l’idea è una zona cuscinetto, si obbligheranno i palestinesi a muoversi verso sud. In ogni caso Gaza andrà ricostruita. Alcuni governi occidentali e arabi ne parlano già, immaginano di godere di un pezzo della torta, parliamo di una quantità di denaro enorme. Magari con l’Autorità a operare sul terreno, nell’idea che ci sarà sbarazzati di Hamas. Molto dipenderà dal nuovo ordine che verrà imposto. Di certo un ruolo di peso lo giocherà il Qatar, che di fatto nelle mediazioni con Hamas parla anche per gli Stati uniti.

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