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Israele: la follia è nel metodo

La decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele è folle. La affermazione di Netanyahu che la città è la capitale di Israele da tremila anni altrettanto. In […]

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 16 dicembre 2017

La decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele è folle. La affermazione di Netanyahu che la città è la capitale di Israele da tremila anni altrettanto. In entrambi i casi c’è del metodo nel disegno che il folle persegue con ostinazione.

Se si seguisse il principio antistorico evocato dal premier israeliano, l’Italia potrebbe accampare diritti sui territori dell’impero romano (Mussolini lo fece), agli indiani d’America dovrebbe essere restituito il dominio sulle loro terre perdute e a Istanbul dovrebbe essere re-issata la bandiera dell’aquila bicefala dell’impero bizantino (i nazionalisti greci l’hanno lungamente sognato).

La creazione di uno stato ebraico in Palestina fu il risultato di una catastrofe epocale, del primo tentativo sistematico di fermare la storia, cioè il corso della vita e le sue trasformazioni. La nascita di Israele fu innegabilmente un atto violento che nulla aveva a che fare con la continuità di un diritto, che la storia aveva reso insensata. È stata, piuttosto, un risarcimento simbolico nei confronti degli Ebrei che non ha riparato il danno dell’umanità ed è stato realizzato a spese di chi con la produzione di questo danno centrava poco o niente.

Creato in conseguenza di un attentato gravemente dissolutivo alla storia, e iscritto nel mito dell’eterno ritorno, Israele è, nondimeno, un atto storico, una realtà che esprime una trasformazione (sospesa). Non la si può sradicare come una metastasi perché non è un tumore. È il luogo in cui a un dolore immane rimasto senza casa è stato consentito di alloggiare. La pretesa della sua sparizione (da parte di chi l’ha vissuta come incubo) è altrettanto illogica come la retorica che si è appropriata della sua fondazione.

In Palestina si gioca da parecchio tempo il destino del mondo. La nostra capacità di rimettere in movimento la storia per non confondere la catastrofe con la trasformazione. La prima lascia il tempo che ha trovato: conferma l’immobilità che fa morire, distruggere il passato. La seconda elabora il conflitto necessario che fa parte del movimento della vita.
Lo stato di Israele ha un senso storico solo se diventa la terra dell’incontro tra due lutti: il lutto dell’occidente per la distruzione di una parte di sé, pericolosamente incombente sul tutto, e il lutto dei paesi musulmani per la loro crisi di prospettiva che non può essere risolta con un odio identitario nei confronti dell’invasore.

Minare l’equilibrio in Palestina, fondato attualmente sul diritto del più forte e sul potere degli integralisti e quindi fragilissimo, è follia diventata metodo. In essa si riflette la sconfitta della passione (indissociabile dal lutto), che, perse le sue ragioni (la permanenza del suo oggetto), di fronte al precipizio, piuttosto che fare il passo laterale che le avrebbe consentito di riposizionarsi nel mondo, si perverte nel calcolo, trasforma la sua impasse in metodo di manipolazione dell’esistenza.

Trump e Netanyahu sono protagonisti di un modo di vivere fondato sull’arbitrio calcolato, che a sua volta, folle creatura emancipata dal suo creatore -l’essere umano perso nei meandri della spersonalizzazione-, li fabbrica e li calcola come suoi agenti. Credono di essere padroni del mondo, ma non sono padroni di se stessi. Efficienti nella costruzione di un agire che anestetizza i sentimenti e congela, rendendole inutilizzabili, le incertezze, le paure e le sofferenze, procedono in senso anti-tragico: seminano cattiva sorte a destra e a manca, non pagando mai di persona. Il mondo non è così grande perché consentiamo loro di agire indisturbati e minare il nostro destino.

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