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Israele-Gaza, la cyberwar e la pace non pacificata

Protesta pro-Palestina all’Università di TorontoProtesta pro-Palestina all’Università di Toronto – foto Ap

Israele/Palestina Si usano strategie militari nelle reti informatiche: bots, trollaggio e mobilitazione di massa di utenti arruolati per diffondere propaganda. La cyberguerra attinge alla cultura microfascista, che promette la rinascita o restaurazione di una identità mitica originaria (quella del gruppo di maschi) costruita sull’eliminazione simbolica o materiale di donne, queer, e non bianchi

Pubblicato 7 mesi faEdizione del 4 maggio 2024

Nonostante le legittime riserve sulla piega presa dalla comunicazione digitale da vent’anni a questa parte (Internet assorbito dal capitalismo di piattaforma) non è possibile negare che essa continua a essere medium e veicolo delle lotte contemporanee di liberazione.

Il movimento globale pro-Palestina che in questo momento chiede un’immediata e definitiva fine ai bombardamenti e incursioni israeliane a Gaza, ma anche in Cisgiordania e in Libano, nonché la fine dell’occupazione militare israeliana, è nato e cresciuto soprattutto grazie alla comunicazione digitale. Sono state piattaforme quali Instagram e TikTok che nonostante varie strategie di controllo algoritmico hanno messo in contatto specialmente le nuove generazioni con tutta la crudezza e brutalità del genocidio in corso a Gaza – nonché delle sue ragioni e radici storiche nel colonialismo europeo e imperialismo americano. Queste nuove generazioni sono state politicizzate dai social del capitalismo di piattaforma ma sono state anche capaci di usare app e servizi di comunicazione crittate e anonime per organizzarsi, riattivando in questo modo le potenzialità democratiche di Internet che né il capitalismo di piattaforma né la censura di stato sono mai riuscite a chiudere completamente.

Il movimento di liberazione globale della Palestina, come tutti i movimenti di liberazione dall’oppressione, sfruttamento e dominio, si caratterizza per la sua capacità di costruire nuove relazioni e nuovi mondi. Negli Stati uniti, e specialmente nei movimenti universitari di questi giorni, si vedono insieme arabi, ebrei, asiatici, afroamericani e africani, soggettività queer, latini e nativi americani impegnati a creare connessioni e immaginari che possono davvero prefigurare un Israele/Palestina post-sionista, cioè postcoloniale (nel modo in cui ne ha parlato su queste pagine Iain Chambers). Questa trasversalità è l’unica strada da percorrere per chi vuole vedere una via d’uscita – sicuramente lunga, difficile e senza garanzie – dal conflitto. Sebbene la stragrande maggioranza delle vittime nonché il peso storico sia sicuramente palestinese, in quanto soggettività colonizzata, Israele è probabilmente da anni uno dei posti meno sicuri in cui gli ebrei e le ebree possono vivere.

Rispetto ai movimenti di liberazione contemporanei, la strategia delle destre etnonazionaliste è l’intensificazione della guerra – sia guerre tra le razze (ebrei e cristiani contro musulmani; migranti contro cittadini nazionali) sia quella civile (terroristi contro patrioti; pro e contro qualsiasi cosa). La strategia principale è quella della cyberwar che prevede l’uso di strategie militari nelle reti informatiche, incluso uso di bots, trollaggio, ma soprattutto la mobilitazione di massa di utenti arruolati per combattere battaglie verbali online e diffondere propaganda. Nella sua capacità di mobilitare utenti, la ciberguerra attinge alla cultura microfascista, definita da Jack Bratich come una cultura che promette la rinascita o restaurazione di una identità mitica originaria (quella del gruppo di maschi) costruita sull’eliminazione simbolica o materiale e debilitazione di donne, queer, e non bianchi. La strategia delle destre è dunque in questo momento quella di incitare e diffondere la guerra. Di fronte alle potenzialità liberatrici del movimento pro-Palestina, sceglie la strada della repressione poliziesca e della persecuzione delle prospettive pro-Palestina sotto l’etichetta anti-semita. Siamo arrivati al paradosso di definire gli ebrei che si oppongono alla guerra a Gaza anti-semiti, svuotando il termine della sua capacità reale di combattere le discriminazioni e trasformandolo in uno scudo contro le critiche allo Stato israeliano. Monta un’offensiva autoritaria contro ogni forma di sapere critico, demonizzato perché minaccia questa logica dicotomica e il consenso costruito sulla occupazione quasi-militare dei media di massa e gli attacchi mirati a voci dissidenti (doxing compreso).

La guerra (civile o meno) distrugge mondi e relazioni, ma arricchisce chi la fa scoppiare o facilita. I movimenti di liberazione invece cercano una pace non pacificata, cioè una pace che non è basata sulla riproduzione di relazioni di dominio – come per esempio la ‘pace’ che regna in una famiglia patriarcale in cui la donna è sottomessa o quella in cui lo strapotere militare garantisce a una parte della popolazione di vivere una relativa tranquillità a scapito di un’altra. Scegliere di stare dalla parte della Palestina e del movimento pro-Palestina è dunque essere di parte sicuramente, ma non nella dinamica di guerre civili e delle razze in cui le destre cercano di spingere (con la complicità spesso dell’opinione pubblica liberale). Essere dalla parte della Palestina e dei palestinesi significa in questo momento essere in maniera più profonda contro la guerra come strumento di distruzione e dominio.

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