Non è bastata nemmeno la pandemia per convincere i governanti italiani a investire in sanità pubblica. Dopo l’aumento delle risorse determinato dall’emergenza e nonostante il Pnrr, in Italia l’investimento in sanità pubblica tornerà a calare nei prossimi anni. È quanto emerge dal Quinto rapporto sul servizio sanitario nazionale, la radiografia della nostra sanità presentata ieri in Senato dal Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze (Gimbe).

I NUMERI sono impietosi: nel decennio 2010-2019 l’aumento del Fabbisogno Sanitario Nazionale, il fondo messo a disposizione del governo per le Regioni cui spetta la gestione della sanità, è stato di appena 8,2 miliardi di euro in termini assoluti. Cioè, un +0,9% annuo, mentre l’inflazione cresceva dell’1,1%, che in termini reali equivale a un taglio. Il confronto con gli altri paesi industrializzati è ancora più scoraggiante: nel 2008, tutti i Paesi del G7 (Usa esclusi, perché il loro modello interamente basato sulle assicurazioni private non è paragonabile) investivano in sanità tra i duemila e i tremila dollari pro-capite. Nel 2020, l’unico Paese a non aver superato i tremila euro è l’Italia. Altri Paesi, come la Germania, hanno raddoppiato l’investimento e oggi sfiorano i seimila euro pro-capite.

Poi è arrivato il Covid. L’analisi del Gimbe rileva come i provvedimenti assunti durante la pandemia abbiano innalzato il Fabbisogno Sanitario Nazionale portandolo dai 113 miliardi del 2020 ai 124 attuali. Nel frattempo, però, l’inflazione è tornata a correre a ritmi novecenteschi, ridimensionando il valore dei denari aggiuntivi. Degli 11 miliardi aggiunti in questi tre anni, inoltre, la metà vengono dai decreti Covid-19 e non sono strutturali. Perciò, la sanità non uscirà rafforzata dalla crisi: come conferma la Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza stilata dal Governo, la spesa sanitaria pubblica alla fine del prossimo triennio scenderà al 6,1% del Pil. Cioè perfino al di sotto dei livelli pre-pandemia. Per spesa pubblica pro-capite l’Italia rimane sotto la media Ocse (3.052 euro contro 3.488). Tra i paesi del G7, l’Italia è il fanalino di coda.

L’investimento straordinario di questi anni è già stato eroso dall’emergenza Covid-19. «La pandemia – si legge nel rapporto Gimbe – non ha affatto mollato la presa e inizia a far vedere i suoi effetti a medio-lungo termine, identificandosi non solo come “patologia acuta recidivante”, ma anche come un’altra malattia cronica che peggiora lo stato di salute del Ssn».

I SINTOMI SONO NOTI: liste di attesa allungate, nuovi bisogni determinati da Long Covid e salute mentale e, soprattutto, il personale non vede l’ora di cambiare aria. Non si contano i pensionamenti anticipati, i casi di burnout, i trasferimenti verso la sanità privata che lasciano scoperti i pronto soccorso e deserti i concorsi. L’aumento dei posti nelle scuole di specializzazione e nei corsi regionali per i medici di famiglia darà i suoi frutti solo tra alcuni anni. Nel frattempo c’è da affrontare una maggiore richiesta di intervento con risorse minori. Anche la strategia con cui le Regioni proveranno a uscirne è già nota: «Cooperative di servizi, reclutamento di medici in pensione e chiamate di medici dall’estero», spiega il presidente del Gimbe Nino Cartabellotta. Esternalizzare i servizi medici e infermieristici consente di spostare gli stipendi sulla voce di bilancio «acquisizione beni e servizi», a costi più elevati per il contribuente e con maggiore precarietà per i professionisti.

OLTRE ALLA SCARSITÀ di risorse, sul servizio sanitario pende la minaccia dell’autonomia differenziata richiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Se il governo Meloni la concederà, l’autonomia allargherà il divario tra una regione e l’altra. Se da un lato le tre Regioni intendono rimuovere il tetto di spesa per le assunzioni (ottima idea, ma da estendere alle altre), dall’altro chiedono maggiore autonomia nell’introduzione di fondi sanitari integrativi – leggi: riportare in auge le mutue private. Una richiesta definita «francamente eversiva» dal Gimbe, in quanto «darebbe il via a sistemi assicurativo-mutualistici regionali totalmente sganciati dalla, seppur frammentata, normativa nazionale», sancirebbe «una concorrenza tra Regioni con trasferimento di personale dal Sud al Nord» e rappresenterebbe «una pietra tombale sulla contrattazione collettiva e sugli stessi sindacati».