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Precipizio climatico, interessi e scelte mancate non danno scampo

Binari ingombrati da detriti a Paiporta, vicino Valencia - foto ApBinari ingombrati da detriti a Paiporta, vicino Valencia – Ap

Clima Secondo uno studio recente della rivista Nature, di qui al 2050 l’impatto del cambiamento climatico a livello globale costerà sei volte più di quanto avremmo dovuto spendere per prevenirlo. Invece, anche le timide politiche «green» impostate negli ultimi anni vacillano sotto i colpi di nazionalismi e populismi

Pubblicato circa 12 ore faEdizione del 31 ottobre 2024

A forza di chiamarlo «riscaldamento globale» ci si era illusi che il cambiamento climatico si sarebbe presentato sotto forma di estati torride e inverni più miti di quelli a cui eravamo abituati. Invece settimana dopo settimana ci accorgiamo che l’enorme quantità di calore trattenuto dall’atmosfera a causa dei gas serra ha come conseguenza immediata l’estremizzazione del clima. La regione di Valencia ora sott’acqua fino a poche settimane fa combatteva con la peggiore siccità degli ultimi ottant’anni. Lo stesso si può dire per l’Emilia-Romagna e per l’Ardeche francese, allagate un’altra volta, così come tante regioni del Mediterraneo e del mondo. Il ricco occidente sta facendo conoscenza diretta di alcune delle ragioni che portano milioni di persone a lasciare le proprie terre precarie per spostarsi altrove.

Quelli che vediamo in tv o dal vivo sono gli effetti di pochi decimi di grado in più. Secondo gli accordi internazionali presi a Parigi nel 2015, il mondo si sarebbe dovuto impegnare per limitare l’aumento di temperatura entro 1,5 gradi in più rispetto all’era pre-industriale. Invece, l’ultimo rapporto annuale del Programma per l’ambiente delle Nazioni unite riferisce che con le attuali emissioni il mondo viaggia verso un aumento di 3,1 gradi, il doppio dell’obiettivo. Per raggiungerlo sarebbe necessario tagliarle del 42% in cinque anni, praticamente impossibile. Su quale sia la scelta più conveniente tuttavia non ci sono dubbi: secondo uno studio recente della rivista Nature, di qui al 2050 l’impatto del cambiamento climatico a livello globale costerà sei volte più di quanto avremmo dovuto spendere per prevenirlo. Invece, anche le timide politiche «green» impostate negli ultimi anni vacillano sotto i colpi di nazionalismi e populismi.

La manovra finanziaria del governo Meloni è esemplare in questo senso. Il governo ha infatti quasi azzerato il fondo destinato a finanziare la riconversione dell’industria automobilistica italiana (cioè Stellantis) alla produzione di auto elettriche: dei 5,8 miliardi rimasti in cassa la manovra ne ha tagliati 4,6. Saranno messi a disposizione della Difesa, a cui il governo ha garantito 40 miliardi di investimenti nei prossimi dieci anni. Evidentemente la priorità del governo Meloni non è collaborare allo sforzo internazionale per riportare sotto controllo il clima ma riguadagnare un posto nelle gerarchie militari globali.

È una tendenza non solo italiana. In Europa, insieme al governo italiano anche quello tedesco chiede a Ursula von der Leyen di rinviare il bando alle auto diesel e benzina stabilito per il 2035. Trattandosi delle due principali manifatture del continente, la spunteranno. Non va meglio a livello mondiale. Tra meno di due settimane il petrostato dell’Azerbaigian ospiterà la COP29, il summit annuale in cui governi e organismi sovranazionali stabiliscono come affrontare la crisi climatica e in cui l’Ue di solito difende le posizioni più ambientaliste. La socialista spagnola Teresa Ribera Rodriguez, designata vicepresidente della prossima Commissione con la delega alla transizione ecologica, sarebbe la politica più attrezzata per portare a buon fine il summit, ma non ha ancora preso servizio. Dunque a Baku l’Ue si presenterà con il solo commissario uscente alla giustizia climatica – riconfermato per il prossimo quinquennio – Wopke Hoekstra, ex-dipendente della petrolifera Shell. Von der Leyen ha affidato a lui, e non a Ribera, la modifica del regolamento ai combustibili fossili per auto e camion in Europa. Per gli Usa ci sarà Joe Biden. È un possibile alleato dell’Europa ma il suo peso dipenderà dall’esito delle presidenziali del 6 novembre.

Seppure la politica rinsavisse e imboccasse una strada virtuosa dal punto di vista ambientale, gli effetti delle minori emissioni si vedrebbero tra qualche decennio. Nel frattempo? Come sanno gli agricoltori emiliani, gli indennizzi pubblici arrivano col contagocce. Il governo italiano pensa di affidare il problema dell’adattamento climatico al mercato assicurativo. Dal 2024, le aziende sono obbligate a stipulare una polizza per proteggersi dal rischio climatico. La scadenza del 31 dicembre è quasi arrivata ma lo ha fatto solo il 5% delle imprese anche perché i premi assicurativi stanno diventando proibitivi e già intere aree europee sono dichiarate «non assicurabili». L’Italia, e non solo lei, si presenta di fronte alla crisi climatica nella peggiore situazione possibile: il mercato dell’energia è dominato da logiche militari, i consessi internazionali appaiono impotenti, il ritorno dell’austerità frena gli investimenti pubblici necessari ad adattarsi al nuovo scenario. La tempesta perfetta, se non fosse già una metafora di cattivo gusto.

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