L’inflazione in Europa continua a galoppare. In Italia, l’indice dei prezzi al consumo, al lordo dei tabacchi, fa registrare a settembre un aumento dello 0,3% su base mensile e dell’8,9% su base annua (da +8,4% del mese scorso).

Con l’energia e il «carrello della spesa» a fare da traino (+11,1%, picco dal 1983). Doppia cifra invece per la zona euro: +10% a settembre, dal +9,1% di agosto. Inflazione da costi che si riversa sui beni di prima necessità e falcidia salari e pensioni.

I dati, forniti da Istat ed Eurostat, arrivano a due giorni dal varo della Nadef da parte del governo. Un documento che si limita a descrivere la «tendenza» dell’economia italiana per i prossimi anni, con stime prudenti, ma non pessimistiche: +3,3% di Pil nel 2022 (dal +3,1% di aprile), +0,6% nel 2023 (dal +2,4% nel Def). Si coglie il clima di sfiducia che c’è in Europa, ma si prova anche ad esorcizzare la recessione.

Che invece è ormai data per certa in Germania. Secondo uno studio congiunto degli istituti Ifo, Ifw Kiel, Iwh e Rwi per conto del ministero dell’economia di Berlino, il Pil vedrà il segno negativo già nel terzo trimestre di quest’anno e per tutto il 2023. 160 miliardi in meno rispetto alle stime di primavera, con l’inflazione che correrà fino al 2024 (10% a settembre, picco dal 1950).

Shock energetico, inflazione, crollo del sentiment economico: una tempesta perfetta. Con le conseguenze del «sabotaggio» del North Stream ancora tutte da ponderare.

Per oltre due decenni, le due linee metanifere baltiche sono state l’anello di congiunzione tra l’industria di trasformazione europea e quella estrattiva russa. Un rapporto di tipo funzionale, strategico. Quando si dice «Europa unita» è alla «manifattura tedesca allargata», di cui l’Italia è un segmento, che bisogna pensare. Un reticolo produttivo reso possibile anche dall’accessibilità delle materie prime russe. Fonti energetiche, manifattura, esportazioni: la stessa strategia neomercantilista della Germania, alla quale si sono piegati gli altri Paesi Ue, è figlia di questo sistema.

Viene alla mente un teorico poco noto ma geniale del mercantilismo dei secoli XVI e XVII: Antonio Serra. In un’epoca dove l’idea di ricchezza coincideva con quella di accumulazione di oro-moneta attraverso gli scambi, egli si chiedeva cosa servisse per «far abbondare li regni d’oro e d’argento dove non sono miniere». La risposta: «Quantità d’artìfici, traffico grande de negozi e provisione di quel che governa». Che, tradotto, significava sviluppo dell’industria, espansione del commercio e politiche statali per il conseguimento di questi due obiettivi. Idee modernissime per quei tempi, quando di rapporto tra industria e surplus commerciali non parlava quasi nessuno.

Dopo quattro secoli siamo ancora qui, ma adesso le cose si stanno complicando. Con la messa fuori uso del North Stream, la Germania rischia grosso. E con essa tutti i Paesi che girano intorno alla sua manifattura. Come l’Italia. Crollo della produzione, giù le esportazioni. Fine di un ciclo. Che, a queste condizioni, non costituirebbe certo un vantaggio per i popoli europei.

Le storture del modello export-led di matrice tedesca sono note. Ne hanno fatto le spese in questi anni il lavoro (bassi salari, precarietà) e il welfare. Ma ora l’alternativa quale sarebbe? Non certo un’economia dei «valori d’uso», del pieno impiego e dell’equa distribuzione del prodotto sociale. Piuttosto, un’Europa ridotta a periferia deindustrializzata dell’Occidente. Ciò che i predecessori di Biden auspicavano già nell’immediato dopoguerra: la «grande area» dove esportare merci e capitali. Più che una crisi ciclica, ciò che si prospetta è un cambiamento degli assetti economici del continente, di cui inflazione e recessione sono solo la spia.

Questa crisi, in ogni caso, un pregio ce l’ha: l’aver riportato in primo piano ciò che è «strutturale» (mezzi produttivi, materie prime, lavoro), dopo decenni in cui al centro del dibattito c’erano state solo le banche e le politiche monetarie. D’altro canto, gas e petrolio non si ottengono né aggiustando i tassi né acquistando titoli di stato sul mercato. L’impotenza dei banchieri. Che in Europa fa il paio con la miopia dei governanti.