Khan Yunis, i soccorsi in un palazzo distrutto Ap/Ahmad Hasaballah
Khan Yunis, i soccorsi in un palazzo distrutto Ap/Ahmad Hasaballah
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Incubo nella Striscia: «Ma la nostra evacuazione non è una vittoria»

Sopravvissuti Il racconto del cooperante italiano uscito ieri dal valico di Rafah
Pubblicato circa un anno faEdizione del 3 novembre 2023

La mattina del 7 ottobre mi ha svegliato il rumore dei razzi e degli allarmi sul cellulare. Ho capito subito che stava accadendo qualcosa senza precedenti. È la terza escalation che vivo a Gaza, la prima con livelli di devastazione così alti.

Dal 2019 lavoro in Palestina e dal 2021 sto a Gaza con il Ciss, un’organizzazione umanitaria siciliana. Passo regolarmente almeno tre settimane al mese dentro la Striscia.

Gli eventi del 7 sono avvenuti in maniera totalmente inaspettata, nonostante siano il prodotto di una situazione che va avanti ormai da troppi anni e di ripetute violenze in Cisgiordania e Gerusalemme Est, nella più totale indifferenza della comunità internazionale. Da quel giorno è iniziata la mia odissea e quella degli altri operatori umanitari che con me si sono spostati cercando un luogo sicuro.

Dalla prima guest house siamo andati in un’altra, abbiamo preso in considerazione di spostarci nell’ufficio del Ciss, in un edificio dove c’erano solo uffici di organizzazioni internazionali. Ma l’ufficio ha preso fuoco. Allora ci siamo trasferiti in un ufficio dell’Olp di Gaza City, le prime giornate sono state molto concitate perché arrivavano ordinanze di evacuazioni continue nonostante fossimo nella green zone (quella più sicura della città). Solitamente le zone più a rischio sono sempre state altre. Questa volta il cuore di Gaza City è stato colpito fin dai primi giorni.

Il 12 ottobre è arrivato l’ordine di evacuazione di tutti gli abitanti della città e del nord di Gaza. Ci hanno dato una finestra di meno di 24 ore per andare verso sud. Ovviamente la nostra preoccupazione era quella di ritrovarci nella calca che si spostava. Ogni trasferimento è stato traumatico non solo perché ha significato abbandonare un luogo che pensavi sicuro per un luogo che speravi lo fosse, ma soprattutto perché scoprivi che neanche i posti in cui ti dicevano di andare lo erano.

Anche se li chiamiamo rifugi non sono posti sicuri, oltre ad essere soggetti a bombardamenti, sono luoghi sovraffollati, con condizioni igienico-sanitarie terribili, luoghi al limite della dignità umana. A questo si somma la mancanza di viveri e acqua ma anche di medicinali e anestetici.

Dal 9 ottobre è stato decretato il blocco totale di acqua ed elettricità. Noi abbiamo vissuto questa situazione da privilegiati, c’è stato un convoglio di associazioni umanitarie che si sono spostate da nord a sud. Ma abbiamo risentito anche noi della mancanza di acqua potabile e della reperibilità del cibo. Spesso abbiamo bevuto acqua salata filtrata. Una volta arrivati al sud ci siamo prima spostati in un rifugio delle Nazioni unite. Lì abbiamo dormito in macchina e su dei materassi in strada.

Il 15 ottobre ci siamo diretti in un altro rifugio vicino Rafah, in cui siamo stati due settimane, dormendo sempre in macchina o a terra. Eravamo 40 persone con un solo bagno e 1300 litri d’acqua al giorno. Quando sono state completamente interrotte le telecomunicazioni abbiamo vissuto dei giorni di totale isolamento, senza internet ma soprattutto senza sapere cosa ci accadesse intorno. Per le persone era impossibile accertarsi delle condizioni dei propri parenti o amici. Per noi è stato difficilissimo accertarci dei nostri colleghi, che per la maggior parte adesso sono sfollati. In quei giorni ci siamo interrogati molto sulla possibilità di operare in campo o meno. Nei primi giorni di guerra ci abbiamo anche provato. Ma nel momento in cui i nostri colleghi sono diventati sfollati è diventato impossibile.

A Gaza nessuno è immune al disastro. Anche gli operatori umanitari che solitamente danno sostegno a chi ne ha bisogno sono diventate persone bisognose di aiutoJacopo Intini

A Gaza nessuno è immune al disastro. Anche gli operatori umanitari che solitamente danno sostegno a chi ne ha bisogno sono diventate persone bisognose di aiuto. Così quando è arrivata la notizia che potevamo evacuare, abbiamo deciso di farlo, sia per le condizioni di sicurezza ma soprattutto perché come organizzazione umanitaria non potevamo più operare. È stata una scelta molto difficile. Verso le due di martedì mattina ci hanno detto che alle sette il valico sarebbe stato aperto e che era possibile uscire anche per i cittadini stranieri. Così ci siamo mossi per raggiungere il confine. Anche lì c’era una situazione molto confusionale. Nonostante il valico sia stato aperto solo per persone con doppio passaporto e casi medici, tantissima gente si è gettata su Rafah tentando di uscire.

Noi siamo usciti con l’intenzione di tornare quando tutto sarà finito, perché ci sarà tanto da fare, la Gaza che conoscevamo non esisterà più. Ma soprattutto la nostra evacuazione non è una vittoria. Nella Striscia ci sono ancora due milioni di persone bloccate sotto i bombardamenti e senza vie di fuga.

*Cooperante internazionale
Testo raccolto da Lidia Ginestra Giuffrida

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