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Inconscio (un quartiere e Desirée)

In una parola Il clamore sulla fine di Desirée e di tante altre donne, per mano maschile, non sarà solo un eccesso mediatico e politico se ci spingerà a un esercizio di consapevolezza

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 30 ottobre 2018

È impossibile distogliere lo sguardo dalla scena della morte di Desirée. E non solo per il clamore dei media. Sul corpo di una giovanissima donna si sono addensate una serie di tensioni, affermazioni, azioni che disegnano molta parte, e forse la parte essenziale, del nostro presente.

Spiegazioni per me troppo sicure di certezze sociologiche (Christian Raimo, e lo segnalo perché apprezzo il suo impegno), post su facebook troppo sintetici (Gad Lerner che ricorda le drammatiche condizioni familiari della vittima, attirandosi una bordata di insulti in rete), e poi le manifestazioni politiche. Un ministro che torna due volte, affrontando fischi e applausi, davanti a quel muro con i cuori rossi. Le ragazze femministe di Non una di meno con gli antifascisti e pezzi di sinistra in una piazza. Una settantina di neofascisti un po’ più in là. Un drappello di donne che invoca le ronde.

Ma anche tanti uomini e donne del quartiere che si commuovono, e per alcuni giorni di seguito scendono in strada. Giustizia per Desirée e contro tanta «bestiale» violenza (ma le bestie sono molto meno efferate, chiamiamola col suo nome: violenza maschile). Riscatto per San Lorenzo ferito dal «degrado», orgoglioso della sua storia, con i tanti ritrovi dove si mangia e si beve, si fa musica, ma anche si legge o si discute un libro. Con i «centri sociali» che cercano alternative culturali, politiche, esistenziali, e che nelle intenzioni si rivolgono anche a chi qui ci vive. Intanto sottraendo all’abbandono spazi urbani dimenticati.
I sospettati violenti e violentatori, fino ad ora, sono immigrati irregolari. Questo orribile femminicidio «fa più notizia» per le speculazioni politiche e razziste? Ha senso ricordare le donne quasi quotidianamente uccise tra le mura domestiche, per le quali non si mobilitano immediatamente le piazze e i ministri non portano rose?

È giusto segnalare il cattivo senso comune che istituisce statuti diversi per le vittime – e i carnefici – di delitti simili. Ma credo sbagliato ignorare che quando la violenza avviene in un luogo pubblico, per quanto abbandonato ai margini (e a proposito: la proprietà privata come si sa è sacra, ma che dire di chi possiede quei muri e li lascia per decenni in quelle condizioni?), e se in più viene agita da stranieri, la paura collettiva aumenta. Più persone si sentono direttamente minacciate, espropriate di qualcosa di irrinunciabile.

Ginevra Bompiani ha scritto qui che i corpi dei migranti rappresentano il nostro inconscio. Corpi diversi, inquietanti. Un’amica senegalese mi ha raccontato di quante volte ha subito distanza e ostilità immediata proprio per il colore scuro della sua pelle. Corpi che ci parlano della nostra difficoltà a incontrare altri. E a vedere, comprendere, accettare i nostri stessi corpi. Così come la vera origine dei mali che ci feriscono, del disagio che ci deprime o suscita reazioni aggressive.

Ancora di più vale per il corpo femminile. Parlo per noi uomini: è l’altro di cui non possiamo fare a meno, che provoca il nostro inconscio e lo riflette. Sta qui, credo, l’oscuro legame tra il sessismo e il razzismo. L’incapacità di riconoscere il proprio desiderio e di educarlo – sì, educarlo – alla relazione con l’altra e l’altro.

Il clamore sulla fine di Desirée e di tante altre donne, per mano maschile, non sarà solo un eccesso mediatico e politico se ci spingerà a un esercizio di consapevolezza. Pensarsi al posto di quel padre, degli uomini che ne hanno abusato lasciandola morire, del figlio che forse un giorno Desirée avrebbe potuto volere.

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