Internazionale

In fila per il pane, sotto una tenda. Raccontando Gaza

Il giornalista Enes al-Sharif in diretta su al Jazeera da Gaza City foto Getty/Dawoud Abo AlkasIl giornalista Enes al-Sharif in diretta su al Jazeera da Gaza City – foto Getty/Dawoud Abo Alkas

Tremenda vendetta Safwat Kahlout è un giornalista di al Jazeera. Come gli altri, da testimone è diventato protagonista del genocidio: le fughe, la fame, il dolore. E 174 colleghi presi di mira e uccisi

Pubblicato circa 12 ore faEdizione del 5 ottobre 2024

Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito e coperto ogni tipo di escalation militare nella Striscia di Gaza e ogni volta ci siamo inventati nuovi modi di lavorare, che fosse per proteggere noi stessi o per individuare metodi alternativi di copertura. Lo abbiamo fatto perché l’occupazione israeliana ha stretto la presa sul giornalismo palestinese per impedirgli di raccontare al mondo la verità. In ogni guerra israeliana, i giornalisti palestinesi hanno pagato il prezzo della verità.

Se vivi e lavori a Gaza come reporter, devi essere preparato a qualsiasi emergenza e devi immaginare ogni possibile piano di emergenza alternativo, per la tua vita e per il tuo lavoro. Lo facciamo sempre. In passato, ogni aspetto della vita si fermava, le scuole e le università chiudevano i battenti fino alla fine dell’offensiva e tutti avevamo in casa cibo in scatola e medicine: era meglio tenerle con sé, sapevamo che il sistema sanitario sarebbe collassato.

SUL LAVORO ci aspettavamo di tutto, a partire dalla distruzione dei nostri uffici. A noi è successo nella guerra del 2021, l’esercito israeliano ha completamente distrutto la nostra sede.

Mancavano la corrente elettrica, la rete internet, la rete telefonica. Ma quanto accaduto dopo il 7 ottobre è stato completamente diverso da quello a cui eravamo ormai abituati. Tutti i nostri piani alternativi si sono dimostrati inutili: l’occupazione israeliana ha superato qualsiasi linea rossa, bombardando ospedali, scuole, moschee, chiese. Tutto a Gaza è diventato un target della macchina omicida israeliana.

C’è un momento della mia vita che non dimenticherò mai. Non lo dimenticherò io e non lo dimenticheranno migliaia di palestinesi di Gaza City e del nord. È stato il giorno in cui sono stato costretto a lasciare la mia casa di tre piani a Gaza City, il frutto del lavoro mio e di mia moglie, 25 anni di lavoro senza sosta. Abbiamo preso i nostri figli e siamo scappati nel centro di Gaza dove fortunatamente avevamo disponibilità di un’altra casa. Come tutti gli altri, abbiamo pensato che quell’area fosse sicura. Abbiamo scoperto con terrore, che nessuna zona a Gaza è sicura. Ovunque i colpi dell’artiglieria israeliana e dei bombardamenti dal cielo.

DAL PRIMO MOMENTO di questa guerra l’esercito israeliano ha chiuso tutti i valichi e imposto un assedio durissimo, impedendo l’ingresso di cibo, medicine, acqua, carburante ed elettricità.

La gente di Gaza è stata completamente isolata, con nulla con cui spegnere la fame e la sete. Abbiamo fatto la fila per ore e ore davanti alle poche fonti d’acqua, ci siamo affidati ai pannelli solari per generare elettricità ed estrarre l’acqua dai pozzi. Siamo rimasti in piedi per ore e ore davanti ai forni per avere un po’ di pane. Siamo stati bombardati anche allora, mentre eravamo in piedi, in fila. A decine sono morti aspettando. Le hanno chiamate le code della morte.

I bulldozer hanno distrutto anche i cimiteri. Quello in cui riposava mio nonno, dagli anni Ottanta, è stato spianato, le ossa dei morti sono riemerse dalla terra. Ho perso una nipotina, la figlia di mio fratello. L’ho saputo una settimana dopo: non c’era modo di comunicare.

INSIEME alle necessità della vita quotidiana, i giornalisti di Gaza si sono trovati ad affrontare sfide enormi, visto che l’esercito israeliano ha impedito l’ingresso ai reporter stranieri. Abbiamo sentito di dover rispondere al grande compito, nazionale e professionale, di raccontare al mondo quanto stava accadendo. Siamo diventati messaggeri, tutti hanno cominciato ad aspettare le nostre notizie e le fotografie che scattavamo per sapere quali massacri Israele stesse compiendo contro il popolo palestinese di Gaza. Abbiamo creato tutto dal niente. Abbiamo trasformato le tende in sedi di trasmissione, abbiamo montato i nostri equipaggiamenti, usato i generatori per avere elettricità, comprato il carburante dal mercato nero, 30 euro al litro.

Intanto le nostre famiglie, che vivano sotto una tenda o in un appartamento in affitto, sono terrorizzate e angosciate per noi ogni volta che sentono un’esplosione. Tanto più quando l’esercito israeliano ha aggiunto i giornalisti alla lista senza fine dei suoi obiettivi. L’occupazione ha bombardato e ucciso la famiglia del nostro direttore, il nostro collega Wael al-Dahdoud, ha ammazzato sua moglie e alcuni dei suoi figli. Ma lui ha continuato a lavorare. Poi l’esercito ha ucciso suo figlio Hamza, mentre era sul campo con al Jazeera. Wael ha continuato a lavorare, in diretta, fino all’ultimo respiro.

PRENDERE DI MIRA i giornalisti è stato un punto di svolta nel processo informativo: abbiamo capito di essere degli obiettivi, che la nostra famiglia era in pericolo per niente, solo per essere la famiglia di un reporter. L’occupazione israeliana ha ucciso 174 giornalisti dei media locali e internazionali, a decine sono stati feriti. Molti, senza più una gamba o un braccio, hanno ripreso a lavorare, un atto di ribellione e audacia. La battaglia dell’informazione deve proseguire.

È IRONICO, ora la gente ha paura ad avvicinarsi a un giornalista: sanno che può essere un obiettivo dell’esercito di occupazione. Alcuni proprietari ci hanno chiesto di lasciare le case che avevamo affittato, temono che finiscano nel mirino e di essere poi costretti ad andarsene alla ricerca di tende e rifugi per le proprio famiglie.

A rendere la situazione ancora peggiore per la mia famiglia è stato l’ennesimo sfollamento: siamo stati costretti a lasciare il centro, verso il sud di Gaza, a Rafah. Abbiamo trovato una casa da affittare e siamo rimasti lì. Il primo giorno l’esercito israeliano ha bombardato l’abitazione accanto, uccidendo 23 persone, tra loro c’erano donne e bambini. Le finestre e le porte della nostra casa sono andate distrutte dalla potenza dell’esplosione. Ci siamo ritrovati al freddo, a usare mezzi primitivi per scaldarci.

Non è durata a lungo: la minaccia dell’invasione è arrivata anche a Rafah. Siamo stati costretti a prendere con noi i nostri figli e a tornare di nuovo al centro di Gaza, a spostare i nostri equipaggiamenti ormai diventati parte della famiglia. Sono gli unici strumenti per dire al mondo la verità.

IO SONO tra le pochissime e fortunate persone che è riuscita a lasciare Gaza con la propria famiglia. Sono arrivato in Italia. Da qui continuiamo a sentire i nostri cari e gli amici che abbiamo lasciato indietro. Siamo andati via da Gaza con i nostri corpi, ma le anime e i cuori sono ancora là, a muoversi tra i messaggi che arrivano dai gruppi su WhatsApp e che non fanno che ingigantire il nostro dolore e la sofferenza per una patria che sanguina. Il numero degli uccisi cresce ogni secondo, 51.500 palestinesi tra cui 16.859 bambini, 11.500 donne e oltre 10mila dispersi.

LE FORZE di occupazione israeliane stanno continuando a distruggere Gaza sistematicamente, facendoci cadere sopra oltre 85mila tonnellate di esplosivo che hanno devastato la maggior parte degli ospedali, le scuole, le università, le moschee e ovviamente le case. Il 75% di Gaza è in macerie.

Il mondo parla di democrazia e umanità, ci vende l’illusione dei diritti umani che distribuisce secondo i propri interessi. Di fronte a Gaza, però, non si muove per fermare il genocidio. E noi giornalisti diamo una responsabilità anche ai nostri colleghi delle agenzie internazionali che stanno lì a guardarci mentre veniamo massacrati dall’esercito israeliano senza intervenire per proteggerci, formando gruppi di pressione sui propri governi o su Israele perché smetta di prendere di mira l’informazione di Gaza.

*Giornalista di Gaza di al-Jazeera

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