Poche bandiere blu e gialle ieri nel grande corteo per la pace e quasi tutte portate da italiani in solidarietà. La comunità ucraina si è data appuntamento per oggi, sempre a Roma, un secondo corteo lungo lo stesso percorso. Allora bisogna cercare nella folla.

Viktoria ha dei fiori tra i capelli biondi, è arrivata da Leopoli sei anni fa. Non ha più familiari in Ucraina ma molti amici che sente ogni giorno. Le chiediamo se le sembra giusto che l’Italia mandi le armi. «Ho paura che la guerra si possa allargare», risponde, «mandare più armi e munizioni può significare anche farla durare di più. Io non mi considero una nazionalista, a volte ho anche pensato che la soluzione migliore per il mio popolo potesse essere arrendersi. Ma li conosco e ti posso garantire che moriranno cento volte prima di arrendersi».

Camminano sotto braccio al centro del corteo due signore di mezza età, Oksana e Ludmilla, la seconda è la veterana essendo arrivata in Italia 21 anni fa, la prima appena 12. Hanno una spilla con i colori nazionali, piccola, sui piumini. Oksana è di Uzhhordo, nei Carpazi, un pezzo di terra stretto tra Ungheria, Slovacchia e Polonia. Lì la guerra, racconta, non è ancora arrivata. Ma lei è comunque in pena per suo figlio Valerio. Ci mostra sul telefono le foto di quello che lui e la sua famiglia stanno facendo per i profughi. Da quella città ne passano tanti, ogni giorno, verso i confini. Vediamo casse d’acqua, coperte e carta igienica. In un’altra foto c’è una donna che prepara dei letti in quella che sembra una palestra. Oksana si augura che la guerra finisca prima di arrivare a casa del figlio. Anche per questo quando le chiediamo delle armi italiane dice che non è d’accordo: «Sarebbe meglio aiutare tutti a fuggire». «Ma non possono fuggire», dice Ludmilla, e racconta del figlio Ruslan. Adesso è a Vinnitsa, una città a tre chilometri da Kiev, ed è un poliziotto. Ci mostra anche lei il telefono, l’ultimo whatsapp è di un’ora fa. Ma lo ha scritto lei e non ha ancora avuto risposta. Ogni volta l’attesa è uno strazio. Si commuove. Siamo quasi in piazza San Giovanni, c’è un bel sole alto che le fa brillare gli occhi e un vento freddo da nord che glieli asciuga. «Ormai gli uomini non possono più partire anche se mio figlio in ogni caso non partirebbe, io glielo dico ogni giorno. Potrebbe stare da me, c’è posto per la sua famiglia. Neanche la moglie vuole muoversi, sta dando una mano all’orfanotrofio. Normalmente lavora in un asilo, adesso è chiuso e si sta occupando dei bambini, li tengono in un bunker». Il problema di Ludmilla è persino opposto: sta cercando di trattenere il secondo figlio che vive con lei a Roma e vorrebbe partire per combattere. L’immagine con la quale dà forma alla sua angoscia sembra un poster di epoca staliniana: «L’Ucraina è un’unghia delle dita della Russia, Putin non si fermerà fino a che non l’avrà presa tutta. Voi mandate le armi, ma dovreste mandare gli eserciti per fermarlo».

In piazza dell’Esquilino fermiamo due ragazzi e una ragazza. Vera è russa, ha 30 anni ed è a Roma per studiare economia. Viene da San Pietroburgo «La città di Putin? No, la mia città e casomai di Caterina II». Gli amici a casa non manifestano contro la guerra, hanno paura della polizia, per questo Vera dice di essere in piazza soprattutto in loro nome. Sul suo cartello ha scritto semplicemente Stop the war e ha lasciato colare la vernice rossa come fosse sangue. Ivan, 17 anni, è arrivato da Tartu, la seconda città dell’Estonia, per un semestre di studio al liceo scientifico Pasteur di Monte Mario. Racconta di aver conosciuto i primi coetanei ucraini qui a Roma, frequentando la basilica di Santa Sofia a Boccea dove si raccolgono gli aiuti: amicizie nate per – anzi contro – la guerra. Sul suo cartello ha disegnato una colomba e ha scritto in ucraino Miry Mir, Pace per il mondo. Yerassyl 21 anni è venuto a studiare economia alla Sapienza da Nur-Sultan, Kazakistan. Sul cartello ha copiato, in cirillico, l’urlo dei soldati ucraini che difendevano l’isola dei Serpenti nel Mar Nero: «Nave da guerra russa, andate affanculo».

Reggono le bandiere blu e gialle Inna e sua figlia Yaroslava, 12 anni, scappate a Roma dalla guerra quando è cominciata davvero, nel 2016. Abitavano a Donetsk, dove Inna ha lasciato un fratello, adesso stanno a pineta Sacchetti. Un altro fratello è a Mykolayev, porto sul Mar Nero dove le cronache raccontano da giorni battaglie feroci. «Lui non sta combattendo, o forse non me lo vuole dire. Non lo so, non lo sento da molto tempo», dice Inna. Molto tempo significa da 24 ore. Il padre di Yaroslava invece è a Kiev con la sua seconda famiglia, lei lo ha sentito poco fa. Messaggio vocale. Le ha raccontato che i russi nel suo quartiere non si sono ancora visti e che i vicini hanno preparato le bombe molotov. «Forse l’Italia e la Germania e gli altri paesi quando hanno pensato di mandare le armi hanno creduto che la guerra potesse durare poco. Gli ucraini non si arrenderanno mai, dovrete mandare ancora tantissime armi e anche i soldati se volete aiutarli così», dice Inna.

Incontriamo anche Irina, ha una giacca a vento con i colori dell’Ucraina e una treccia bionda che vola nel vento e a un certo punto lei deve infilare nella mascherina per tenerla ferma. È a Roma da sei anni «per amore», ha lasciato la madre, il padre e un fratello nel centro di Kiev «in un palazzo costruito all’epoca di Stalin con il bunker nel sotterraneo, stanno a casa e quando sentono la sirena scappano sotto. Gli chiedo di venire ogni giorno, più volte al giorno. Ma non è facile. Adesso potrebbero entrare in Italia come profughi, ma l’Ucraina non lascia partire gli uomini e mia madre e la moglie di mio fratello non vogliono lasciarli. Le armi? All’inizio ho pensato che fosse sbagliato. Poi ho capito che i nostri vogliono difendersi fino alla fine,lo dice anche mio padre che non è più giovane. Allora con mio marito stiamo organizzando anche noi delle spedizioni di materiale militare. Non armi, ma medicine speciali da guerra che un trasportatore ucraino riesce a far passare attraverso la Polonia. Devono resistere. Dobbiamo resistere».