In Cisgiordania escalation di bulldozer, droni, coloni scatenati. E 229 morti: «I soldati ormai mirano alla testa»
A ferro e fuoco Il racconto di testimoni e reporter locali. Dal 7 ottobre oltre 3.100 arresti, 32 i giornalisti. A Jenin l'esercito israeliano bloccato, ci pensa l’aviazione
A ferro e fuoco Il racconto di testimoni e reporter locali. Dal 7 ottobre oltre 3.100 arresti, 32 i giornalisti. A Jenin l'esercito israeliano bloccato, ci pensa l’aviazione
Dopo una settimana di scontri incessanti, nelle strade periferiche del campo profughi di Jenin regna il silenzio. Macerie e grandi quantità di terra sono state disposte sui lati dei vicoli che si intersecano fitti tra palazzi e abitazioni, mentre a terra si vedono ancora le scie dei bulldozer e dei veicoli militari israeliani che negli scorsi giorni hanno messo a ferro e fuoco i quartieri di Jabal Abu Zaheer and Al-Jabriyat.
«LE FORZE ISRAELIANE hanno tentato nuovamente di entrare nel campo, senza successo. Quando i soldati hanno capito di non potere avanzare ulteriormente, sono incominciati i bombardamenti e le stragi di civili», racconta la giornalista Sharuq Al-Assad, tornata da pochi giorni a Ramallah dopo una visita sul posto. «Nelle scorse settimane si sono intensificati gli attacchi a infrastrutture, monumenti e case attraverso raid di elicotteri e droni. In Cisgiordania viviamo all’ombra dell’invasione di Gaza, ma anche qui siamo sotto assedio. I soldati ormai sparano senza distinzione, mirano alle parti vitali per uccidere. Dei 229 morti da inizio conflitto, la maggior parte è stata colpita alla testa o al cuore».
AL CHECKPOINT DI AL-JALAMA, nel frattempo, le attese si fanno sempre più lunghe. Durante i controlli decine di persone vengono interrogate, arrestate e poste senza alcuna ragione in regime di detenzione amministrativa, una tipologia di fermo previsto dall’ordinamento israeliano sulla base di motivi segreti di sicurezza, che non possono essere sottoposti a ricorso. Dal 7 ottobre, in Cisgiordania sono oltre 3.100 le persone arrestate dalle forze armate dello Stato ebraico, di cui 32 giornalisti.
Da Hebron, Badee racconta dell’arresto del figlio Mahmoud, minorenne, catturato dai soldati israeliani lo scorso 6 novembre.
«Sono uscito di casa come ogni mattina per andare a lavorare, mia moglie e Mahmoud erano in cortile a fare colazione. Nel pomeriggio ho provato a contattarlo per chiedergli quando sarebbe tornato a casa, ma non ho ricevuto risposta. Alle 23, all’ennesima chiamata, ho capito che era successo qualcosa di grave».
IL GIORNO SUCCESSIVO, grazie all’aiuto dell’ong Jerusalem Complaints Center, Badee ha scoperto che suo figlio era stato portato nella prigione di Ofer, vicino Ramallah, insieme a un gruppo di amici. «Tramite un avvocato sono riuscito a rintracciare mio figlio e a farmi raccontare l’accaduto. I ragazzi erano in macchina e sono stati fermati da un gruppo di militari, che li ha aggrediti e arrestati dopo aver trovato nel veicolo una cassetta degli attrezzi con un cacciavite e altri utensili da lavoro. Da tre settimane cerco di avere un contatto con lui, ma il telefono è spento. Al momento non mi è stato permesso ancora di andarlo a trovare: sono spaventato a morte, spero con tutto me stesso che non sia stato torturato. Dall’inizio dell’escalation, sono già cinque i detenuti morti a seguito di violenze della polizia carceraria».
Intanto, nelle aree adiacenti a Hebron, Masafer Yatta e Nablus i coloni israeliani continuano ad attaccare la popolazione civile palestinese con armi da assalto. L’incremento della distribuzione e detenzione di armi da fuoco tra i cittadini israeliani durante l’escalation è cresciuta esponenzialmente: dall’inizio delle ostilità, sono più di 236.000 gli israeliani che hanno richiesto il porto d’armi (un numero pari alle domande presentate negli ultimi 20 anni). Una situazione che ha sottoposto interi centri abitati a un regime di terrore e lockdown militare: «Coloni e soldati stanno seminando il panico per le strade, la gente non è più al sicuro», racconta il giornalista di Nablus Asef Nawfal, testimone di uno dei numerosi attacchi al campo profughi di Balata.
«GLI SCONTRI ARMATI – prosegue Nawfal – sono all’ordine del giorno: lo scorso 23 novembre l’esercito ha colpito duramente abitazioni e aree densamente popolate, causando decine di feriti e un morto, a cui si aggiungono 5 vittime in un attacco aereo il 18. Il tutto, purtroppo, a spese dei civili».
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