Si giocano sino al 20 agosto in Australia e Nuova Zelanda i Mondiali di calcio femminile 2023. A gennaio Adidas, uno degli sponsor dei Mondiali e anche quello della squadra tricolore, ha presentato il pallone ufficiale con cui si contendono i goal le 32 squadre presenti: si chiama Oceaunz ed è il nono pallone da calcio disegnato da Adidas per la Coppa Fifa. «Ambientato su uno sfondo bianco perlato – spiega l’azienda delle tre strisce – il design presenta una decorazione di blu e verde, ispirata al paesaggio unico dell’Australasia, con elementi visivi che richiamano il legame dell’Australia con l’Oceano Indiano».

Ma in questo panorama sportivo, idilliaco e green, ecco che arrivano i soliti guastafeste. Decisi a fare dei grandi eventi sportivi internazionali anche il manifesto delle responsabilità di Paesi e sponsor. Quelli in una parola che gestiscono il business miliardario delle grandi competizioni dove lo sport – non siamo i primi a dirlo – sembra più il contorno che il piatto forte. Con cui esibire loghi e bandiere su cartelloni, scarpe o magliette.

LA GUASTAFESTE DEL CASO è la Campagna internazionale Clean Clothes che “scende in campo” per far luce su responsabilità e sfruttamento nelle catene di fornitura dei più importanti marchi sportivi del mondo, che sono anche principali sponsor della competizione: Adidas e Nike.
«La maggior parte della produzione di Adidas e Nike – spiega una nota della sezione italiana (abitipuliti.org) – avviene in Paesi in cui i sistemi di protezione sociale sono inadeguati, se non addirittura inesistenti. E questo per i lavoratori e le lavoratrici ha significato rimanere senza stipendio quando la propria fabbrica ha chiuso i battenti». Tantissimi sono i casi raccolti in un dossier (Adidas & Nike PayYourWorkers) che si presenta puntuale all’apertura dei giochi.

In Cambogia, Hulu Garment è una fabbrica di cucito (che rifornisce Adidas e altri marchi), che ha sospeso l’intera forza lavoro di oltre mille lavoratori all’inizio di marzo 2020 quando il Covid ha iniziato a colpire le catene di approvvigionamento globali. La fabbrica non ha ordini – spiegava l’azienda – e potrebbe dover licenziare. C’è anche un documento da firmare per ricevere la sospensione della retribuzione. In molti firmano ma non si accorgono (c’è chi è semi analfabeta) che sotto la busta paga c’è una riga in cui si dichiarano le dimissioni.

La pandemia ha avuto effetti deleteri sulla delocalizzazione del lavoro e nel tessile cambogiano – per limitarsi a un Paese dove l’ultimo pensiero del regime sono i diritti – oltre cento fabbriche produttrici di beni per marchi internazionali di moda e abbigliamento sportivo ne hanno approfittato per non regolare i conti.

SECONDO I SINDACATI e la Campagna, lavoratori e lavoratrici aspettano ancora circa 109 milioni di dollari di salari sottratti durante la serrata nazionale di aprile e maggio 2021. «Di questi, le perdite inflitte a 30.190 lavoratori in otto fabbriche fornitrici di Adidas dall’inizio della pandemia, ammontano a 11,7 milioni di dollari, o 387 dollari per lavoratore. Mentre nello stesso periodo l’azienda tedesca accumulava 650 milioni di dollari di profitti nel primo trimestre 2021». Nel caso Hulu Garment, mancano oltre un milione di dollari di indennità di licenziamento.

Anche Nike non fa bella figura: ci sono in ballo oltre due milioni di dollari di salari e indennità di licenziamento non corrisposti causa Covid alle lavoratrici cambogiane e tailandesi.

«La pandemia – dice al manifesto Deborah Lucchetti di Abiti puliti – ha solo reso più evidenti i problemi strutturali che affliggono l’industria della moda e dunque anche l’abbigliamento sportivo. Sono tanti i casi di furto salariale e licenziamenti senza indennità che PayYourWorkers ha denunciato: alcuni risolti solo grazie a una forte pressione pubblica. Ma il problema è sistemico e richiede soluzioni strutturali, specie in un contesto internazionale dove non esistono sistemi efficaci di protezione sociale. Per questo, insieme a numerosi sindacati dei Paesi produttori, chiediamo ad Adidas e Nike di aprire la strada e firmare un accordo vincolante che garantisca salari, tfr in caso di licenziamento, libertà di associazione. Per garantire che lavoratori e lavoratrici delle loro catene di fornitura non siano mai più privati dei loro diritti fondamentali».