Come un agrimensore dello sterminio, Aharon Appelfeld ci ha ammaestrato al suo raccogliere ricordi, immagini, vocaboli di una lingua perduta, nomi di persone dileguate, fragili frammenti di oggetti emersi dalle ceneri. I suoi romanzi hanno dato voce a indimenticabili figure di fuggitivi e superstiti, a esseri spaesati in cerca di un nuovo impossibile inizio. Scrisse Il mio nome è Katerina (traduzione di Elena Loewenthal, postfazione di Susanna Nirenstein, Guanda, pp. 240, € 18,00) all’età di cinquantasette anni, poco dopo aver pubblicato Badenheim 1939, Storia di una vita e L’immortale Bartfuss.

Nella luminosa e scabra attività di scrittura che contrassegnò gli ultimi suoi trent’anni, sarebbero seguiti altri romanzi, diversi tra loro e inseparabili, tracce del suo perimetrare il centro intangibile della Shoah. Con l’ottantenne Katerina, contadina rutena di un villaggio che oggi si troverebbe in Ucraina e che ai primi del Novecento era nella Romania asburgica, Appelfeld mette in scena una figura che appartiene alla cultura dei carnefici: è una «gentile» che, pur avendo assorbito nell’infanzia l’antisemitismo come ordinamento naturale, finisce con il distanziarsi dalla greve violenza delle origini per abbracciare l’ebraismo in una terra dove ogni ebreo è stato ormai cancellato.

Attraverso la trasformazione di questa donna tormentata, Appelfeld indaga ciò che precedette la Shoah, i pogrom dell’inizio del Novecento, la progressiva normalizzazione del massacro degli ebrei, per giungere alla passione genocidaria esplosa nell’est europeo sotto il nazismo. Agli ebrei si poteva rubare, perché «rubare a un ladro è permesso»; la gente li picchiava, ma «erano come corvi che tornano sempre».

Nell’inclinazione a immedesimarsi nell’altro che è propria della letteratura, Appelfeld riconosce come umana la costruzione dell’odio, l’adesione allo sterminio. La capacità di ascoltare l’altro che vive nel personaggio, costruirgli un ponte, aprirgli una strada verso il lettore, è parte della grandezza di un autore che ha saputo tenere in bilico una sintassi dell’assurdo – dove quasi tutto accade senza mai essere nominato, nell’immanenza – e una tensione interiore a guardare il male spingendosi nella quotidianità che lo ha reso possibile, senza farlo diventare metafisico.

Scappata di casa, la giovane Katerina trova lavoro come governante in una famiglia ebraica osservante. Durante la settimana è costretta ad apprendere il silenzio che protegge la lettura dei testi sacri, la distinzione tra ciò che è proibito e ciò che è permesso, la separazione tra carne e latte, ma la domenica è libera di andare nelle osterie a ubriacarsi con altri domestici ruteni a servizio dagli ebrei, che chiamano «figli di Satana» e che derubano. «La nostra giovinezza, la gioia di vivere ci portavano a disprezzare il loro stile di vita, la loro statura, l’abbigliamento, il cibo, la parlata, il modo in cui si accoppiavano».
Nella convivenza, tuttavia, Katerina si affeziona a Rosa, la padrona di casa, e ai suoi bambini, impara i precetti della Torah, apprende qualche parola di yiddish. Gli amici dell’osteria la avvertono che si sta guastando, che gli ebrei «agiscono di nascosto, segretamente, ti cambiano da dentro». E davvero Katerina viene cambiata, anno dopo anno, dall’amore per i libri, dalla riflessività, dalla mitezza di quella che è diventata la sua nuova famiglia. Siamo agli inizi del Novecento ed è consuetudine che, per Pasqua, nella città venga ucciso un ebreo. Anche il padrone di casa verrà assassinato per strada, in pieno giorno. Dopo il funerale Katerina si aspetta una fuga ma nessuno parla di lasciare la città. La normalità viene poco per volta ripristinata finché, per la festa di Hannukkah, gruppi di balordi escono dalle osterie per darsi al saccheggio dei negozi degli ebrei, e anche Rosa viene strangolata mentre cerca di difendere la sua bottega. Katerina nasconde i bambini, vuole aiutarli a non dimenticare l’yiddish e a seguire i precetti, ma intanto insegna loro la dura lingua rutena, li nutre con cibi «impuri» per irrobustirli, li sprona a reagire, colpire i nemici senza cedere alla paura, perché «gli ebrei impauriti risvegliano i demoni».

Quando i parenti di Rosa la rintraccerano e le porteranno via i due piccoli che ormai sente come figli, Katerina tornerà a vagabondare finché non troverà impiego come domestica in casa di una pianista ebrea laica, dedita solo alla propria arte, mentre la morsa dei pogrom si fa sempre più vicina e violenta.

Ancora e ancora i rovesci della sorte di Katerina si legano a quelli degli ebrei che incontrerà sul suo cammino, fino a quando diventerà a sua volta vittima di un’inaudita brutalità dalla quale si difenderà così furiosamente da essere rinchiusa in un carcere per quattro decenni. Da lì sentirà gli echi del mondo di fuori, ogni mese un saccheggio o un omicidio, finché, oltre le recinzioni, le prigioniere cominciano a veder passare i treni, e tutte sanno che trasportano ebrei diretti all’eliminazione. Le compagne ne gioiscono apertamente. Una mattina sulle torrette non c’è nessuno, le sorveglianti sono scappate. Le prigioniere si incamminano nella campagna spoglia. Katerina si volta a guardare. Il carcere da lontano è quasi un’allucinazione.

Vecchissima, malata, mezza cieca, mezza sorda, torna alla casa che era stata dei suoi genitori. La fine della guerra non è che un’eco lontana. Solo un cieco viene una volta a settimana a portarle un po’ di cibo e a pulire, a tentoni. «Adesso non ci sono più ebrei nel mondo, sono sola, e di nascosto rievoco le loro feste nel mio quaderno».
Rosa, i bambini, la pianista, la piccola comunità e la sua lingua rivivono nella sua mente, dove si conserva la memoria dei volti amati, dei riti, delle luci, come una estrema difesa dal mondo. Un cieco accudisce una vecchia che porta in sé gli scomparsi.