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Ilaria Cucchi: l’anno della giustizia e gli anni dell’amore, «regalo di Stefano»

Ilaria Cucchi: l’anno della giustizia e gli anni dell’amore, «regalo di Stefano»Ilaria Cucchi e Fabio Anselmo dopo la lettura della sentenza del processo bis per la morte di Stefano Cucchi – LaPresse

L'intervista Nel 2019 la famiglia del giovane geometra romano morto nell'ottobre 2009 ha ottenuto finalmente la condanna dei carabinieri che lo pestarono. Oggi la sorella Ilaria fa il bilancio di un periodo dirompente, «che mi ha trasformata completamente»

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 31 dicembre 2019

È a Ferrara, Ilaria Cucchi, a trascorrere le vacanze natalizie con Fabio Anselmo, il suo avvocato e compagno, quando viene reso pubblico il caso dell’ennesimo brutto episodio che sarebbe avvenuto all’interno della caserma dei carabinieri di Copparo, dove nel settembre scorso sarebbero stati intralciati i soccorsi per un uomo arrestato che aveva bisogno di cure (vedi il manifesto del 29 dicembre). Ancora una volta il “dovere” di militante per i diritti delle persone private di libertà la chiama e lei non si sottrae: si dà da fare, partecipa alla conferenza stampa, indaga, denuncia. È sempre di corsa, Ilaria, e raramente si concede evasioni. Ma nel 2019, a conclusione del primo grado del processo bis, ha raccolto i frutti di dieci anni di battaglie dolorose, con la condanna dei due carabinieri che nel 2009 pestarono suo fratello Stefano, morto una settimana dopo essere stato arrestato.

Ilaria, quest’anno è stato un anno particolare per lei…

Decisamente un anno estremamente significativo. Però tutti questi ultimi dieci anni sono stati anni particolari, pieni di risvolti, di momenti estremamente difficili, di tante cadute e di tante risalite. Dieci anni che come donna mi hanno completamente trasformato.

Come?

Dieci anni fa ero una donna e una madre «perfetta», così mi definiva mio fratello Stefano, lo ripeté anche l’ultima volta che lo sentii per telefono. Si stava lamentando delle sue difficoltà e io lo spronavo. Mi disse: «Ma tu che ne sai, tu che hai una famiglia, un lavoro, una vita perfetta!». E in effetti io mi sentivo tale. Poi ho capito che la realtà era abbastanza diversa da come l’avevo immaginata e me la raccontavo.

Un po’ di perbenismo?

Assolutamente sì. Io mi sentivo e apparivo perfetta, e pensavo di essere soddisfatta della mia vita da “mulino bianco”. Stefano mi chiedeva sempre: «Ma tu sei felice, Ila?». Ho capito dopo che quella non era la mia vita, quando mi sono trovata immersa, mio malgrado, in una realtà che mi era totalmente estranea fino al giorno della sua morte. Dieci anni fa ero talmente fiduciosa nelle istituzioni da affidare nelle loro mani la salvezza di mio fratello, senza capire che loro erano parte del problema.

Però questa fiducia in realtà lei l’ha sempre mantenuta, come dimostra la perseveranza nella richiesta di una giustizia processuale.

Sì, diciamo che se non avessi avuto rispetto in quelle stesse istituzioni che in fondo mi avevano tradita e abbandonata, ed erano diventate il mio peggior nemico, non avrei avuto motivo per perseguire la giustizia. Che finalmente è arrivata dopo dieci anni.

Parliamo del suo rapporto con la politica: come è cambiato in questi anni?

Al tempo sentivo la politica come qualcosa di molto distante. Sono stata accusata tante volte di voler fare politica, di voler strumentalizzare. Quello che mi sento di dire è che tutto ciò che abbiamo fatto in questi anni – dico «noi» perché da soli non si fa nulla – è politica, con la p maiuscola. Quella che serve, quella sul campo. E che non dimentica i diritti.

Certo, ma in questi anni è entrata a contatto anche con la politica meno “pura”, diciamo, quella di chi si sporca le mani e scende a compromessi. Che rapporto ha con quel tipo di politica?

Mah, mi viene in mente la discussione sul reato di tortura: ecco credo che su certi temi non si debba mai scendere a compromessi. E infatti, la legge che è stata varata, frutto di molti compromessi, sembra fatta apposta per non essere applicata nelle aule di giustizia. Sui diritti non possiamo scendere a compromessi.

Non crede che però il varo di quella brutta legge possa aver contribuito a mutare il clima, permettendo poi alla giustizia di fare il suo corso anche per Stefano?
Per quanto riguarda il nostro processo, l’introduzione del reato di tortura nel codice penale italiano non ha avuto alcuna influenza. Semmai in questi ultimi anni, grazie al dibattito sulla tortura e alla risonanza che ha avuto la nostra battaglia, l’Italia ha fatto un passo avanti dal punto di vista culturale. E poi qualcosa è scattato anche da parte di chi fa la giustizia. Perché la giustizia è fatta dalle persone.

Ci sono cose di questi dieci anni che non rifarebbe?

Guardi, io non mi pento di nulla. Se tornassi indietro rifarei ogni cosa, anche quelle che mi sono costate tanta fatica, come mostrare le foto del cadavere di Stefano.

E la foto di Francesco Tedesco, l’imputato che dopo nove anni ha deciso di parlare e di accusare i suoi colleghi, la ripubblicherebbe sui social?

Scelsi una foto qualunque, sono stata molto criticata per quel post. Ma oggi sento di non dovermi rimproverare di nulla.

Sulle droghe ha cambiato idea in questi dieci anni? Cosa pensa della legalizzazione?

Che domanda difficile… a me le droghe fanno paura. Oggi, da madre, ancora di più. La droga mi spaventa, è pericolosa. Certo è che Stefano non è morto di droga.

Una volta si è pure candidata. Poi mai più…
Sì, nel 2013 mi candidai con Antonio Ingroia, per Rivoluzione civile, perché credevo in lui e sentivo che c’era un vuoto sul tema dei diritti. Oggi quel vuoto è perfino cresciuto, il messaggio che costantemente passa e che ahimè raccoglie sempre più consensi è che i diritti, se sono diritti di qualcun altro, possono essere sacrificati.

Un mese fa però ha rifiutato la candidatura a sindaca di Roma.

Era stata una provocazione, e io ho risposto dicendo che ero disposta a scendere in campo a condizione che tutti i partiti facessero un passo indietro. Così non è stato e quindi…

È dei partiti che non si fida?

Beh sì, devo dire di sì.

«Il coraggio e l’amore» è il libro che ha scritto a quattro mani con Fabio Anselmo e che racchiude un po’ tutto il percorso di questi dieci anni. Perché questo titolo?

Perché purtroppo per portare avanti queste battaglie, che poi diventano delle vere e proprie battaglie di civiltà e patrimonio di tutti, ci vuole ahimè tanto coraggio. C’è purtroppo ancora bisogno di eroi, e così non dovrebbe essere. Un coraggio che si è nutrito di amore, in tutte le sue espressioni: l’amore per la verità, per la giustizia, l’amore per Stefano. E poi c’è l’amore che è nato tra me e Fabio: dal male è scaturito qualcosa di bello.

Se non ci fosse stato l’amore tra lei e Fabio sarebbe stato tutto più difficile?

Per quanto riguarda la battaglia giudiziaria no, sarebbe stata assolutamente la stessa cosa. Perché Fabio lo vedo battersi quotidianamente nelle aule di giustizia, e lo fa con la stessa forza e determinazione con cui l’ha fatto nei processi per Stefano Cucchi. Per quanto riguarda me, invece, questo amore è stato ed è una motivazione. Lo è stato ogni volta che avevo voglia di piangere perché Stefano non c’era più, perché mi aveva abbandonata, perché quel fratello che anche nelle sue difficoltà più grandi si preoccupava sempre che io fossi felice se ne era andato. Ma ho capito dopo che non mi aveva lasciata da sola: mi aveva lasciata con Fabio. E questo amore per me rimane il suo regalo, il regalo di Stefano.

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