Internazionale

Il viaggio di Trump in un continente troppo complicato per lui

Il viaggio di Trump in un continente troppo complicato per luiDonald Trump e il presidente cinese Xi Jinping a Mar-a-Lago, Florida, nell’aprile scorso – Reuters

11 giorni in tour Giro dell’Asia in cinque tappe, l’incontro clou con «il re della Cina». E il suo team promette: «Rispetterà l’etichetta, niente Twitter». Il dilemma della Sud Corea

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 4 novembre 2017

Giappone, Corea del Sud, Cina, Vietnam e Filippine. Cinque stati in undici giorni: il tour asiatico di Donald Trump dovrà convincere molti dei paesi asiatici circa le intenzioni della Casa bianca (al vertice Apec in Vietnam, il 10 novembre, dovrebbe anche incontrare Putin).

Per Washington c’è da ricostruire una fiducia con paesi «vicini» agli Usa ma che negli ultimi tempi, date le intemperanze del presidente americano e la sua dottrina «America First», sembrano non avere più molto chiaro il disegno della prima potenza mondiale in Asia. Da questo novero di dubbiosi, ovviamente, si deve escludere la Cina.

IL TEAM DI TRUMP ha tentato di rassicurare circa le intenzioni della Casa bianca e sul comportamento che il presidente terrà durante il tour: niente dichiarazioni su Twitter e una soglia di attenzione superiore a quella che solitamente Trump pare concedere (o avere), oltre alla necessità di evitare comportamenti considerati deleteri dai partner asiatici.

Come scriveva il Washington Post nei giorni scorsi, per Trump l’Asia è un continente complicato: gli asiatici tengono molto al concetto di «faccia» associato alla necessità di «non perderla» tanto più in pubblico. Una pietra angolare dura da comprendere per un presidente che invece pare godere nel comportarsi completamente fuori dalle etichette.

Sarà dunque un viaggio difficile, tanto più che membri dell’amministrazione – secondo indiscrezioni – non reputerebbero Trump «preparato» su quanto dovrà affrontare.

Va detto che anche tra i leader asiatici non sembrano esserci molte certezze: soprattutto Giappone e Corea del Sud, seppure in modo diverso, stanno ragionando su come ottenere qualche passo avanti da Washington riguardo la gestione della crisi nordcoreana, al primo punto dell’agenda asiatica.

LA PRIMA TAPPA di Trump è in Giappone. Oggi incontrerà il premier Shinzo Abe e poi visiterà la base militare di Yokota. Tokyo punta a rassicurazioni pubbliche circa la difesa militare Usa del Giappone tanto più sotto la minaccia di Pyongyang. Le mosse di Trump da quando è alla presidenza, vedi l’affossamento dell’accordo di libero commercio transpacifico (il Tpp), non hanno granché soddisfatto il Giappone che pure rimane l’alleato più forte della regione. Ma anche da Tokyo si chiede a Trump di rinvigorire la fiducia dei giapponesi con gli alleati americani.

BEN DIVERSO TENORE avrà l’incontro che Trump terrà con il numero uno sudcoreano Moon Jae-in. Se è vero che Trump avrà l’onore di essere il settimo presidente americano a poter parlare all’assemblea nazionale sudcoreana, è scontato che il bilaterale con Moon sarà complicato.

La Corea del Sud aveva dato ampi segnali di voler trattare e arrivare a una soluzione diplomatica della crisi coreana. I test di Pyongyang e la muscolarità di Trump hanno finito per affievolire «la primavera di Seul» e hanno portato anche Moon su posizioni più intransigenti.

Ma i nodi sono venuti ben presto al pettine: Trump ha infatti chiesto a Seul di pagare interamente il Thaad, il sistema anti missilistico che Washington ha voluto schierare quando a Seul di fatto mancava un governo legittimo e che Moon aveva già specificato di non gradire.

C’è dunque un dilemma: la Corea del Sud vuole sganciarsi dalla eccessiva presenza americana ma Moon non può fare a meno dell’appoggio di Trump. Si tratterà di trovare equilibri capaci di non innervosire, prima di tutto, Pechino. Intanto la diplomazia sudcoreana sembra essere riuscita a convincere Trump a non recarsi nella zona demilitarizzata, evitando così un gesto simbolico che poteva causare problemi soprattutto con Pyongyang.

Per dimostrare la sua grande amicizia con Xi Jinping – «una brava persona» come lo ebbe a definire – Trump ha utilizzato una delle sue costanti iperboli per complimentarsi con il successo ottenuto da Xi Jinping nel congresso del partito comunista. Lo ha chiamato «il re della Cina». E in effetti Trump arriverà a Pechino baldanzoso di questa intesa, presunta o reale che sia, con il numero uno cinese.

LA CRISI COREANA è l’argomento pubblicamente più rilevante, ma pare che il team presidenziale lavori soprattutto su temi economici. Il deficit nella bilancia commerciale è ancora ampio per Washington (gli Usa importano dalla Cina molto più di quanto vi esportano): Trump lo aveva definito «imbarazzante».

Pechino da parte sua giocherà sui due tavoli provando a bilanciare richieste e concessioni, insistendo sicuramente per una via diplomatica alla crisi coreana, rinsaldata dai messaggi incrociati sulla rotta Pechino-Pyongyang registrati in occasione del Congresso del partito comunista.

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