«Il vento degli dei della parola»
Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti
Divano La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti
Se non è di celebrazione. Se non è di magniloquenza l’intento che spinge ad una fraseologia e versificazione ampollose. Se non si tratta di enfatizzare fino alla ridondanza la gloria dell’impresa e la superiorità del capo, quale il ruolo della poesia nella epocale vicenda delle rivoluzioni del Novecento? Della poesia che reca conoscenza ulteriore dell’uomo, intendo, tensione attiva dentro le dinamiche dispiegate a liberarlo l’uomo, a porlo in una relazione economica e sociale che ne assicuri la dignità, come recitavano programmi ed atti, per esempio, in Russia nel 1917, or sono cent’anni.
Dunque, nell’opera di liberazione la poesia, non la letteratura adulatoria in versi che legittima e decora l’accaduto.
«Mandate al diavolo una letteratura che viene servita come dessert», diceva Vladimir Majakovskij.
La poesia, che tenta una decifrazione degli avvenimenti e l’accaduto assume come interrogazione, come dubbio, come apertura. La poesia, che l’accaduto non fissa nell’ornamento di un fregio, non travisa in un addobbo di cerimonia. La poesia, che l’accaduto scevera, indaga, esprime ovvero tramuta in parola nuova, inaudita e che volge e dispone, qui e ora, al futuro.
Majakovskij: «patria della creazione è il futuro, di dove soffia il vento degli dei della parola».
La poesia, che non iberna l’accaduto in una sigla che non puoi scalfire e ostruisce il vivo e alla cosmesi del morto affida una fittizia sopravvivenza nella cerimonia rituale, nel culto, nella liturgia delle parole d’ordine. Poesia e rivoluzione, se rivoluzione plasma e ricrea, libera.
In una precedente nota ho richiamato il concetto di poesia secondo il convincimento di Pietro Ingrao: un atto cognitivo capace di dar conto, oltre l’agire che consegue a una mera razionalità strumentale, della creatività emotiva del vivente.
Da qui una costante attualità del linguaggio poetico per scoprire la densità del vivente. Dunque, pare a me, uno stare alla interrogazione su l’uomo, quale si informa al socratico ‘conosci te stesso’.
Roman Jakobson, nel 1930, alla morte di Majakovskij, pubblica Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskij. Scrive: “La prima raccolta dei suoi versi si intitola Ja (Io). Majakovskij non soltanto è l’eroe della sua prima opera teatrale, ma anche il titolo di questa tragedia (la tragedia Vladimir Majakovskij, scritta nel 1913), nonché l’intestazione dell’ultima raccolta delle sue opere. Sebe ljubimomu («All’amato sé stesso) dedica i propri versi l’autore». Non egotica burbanza, boria, sicumera, ma una passione socratica che la poesia invera e che la rivoluzione fiorisce.
Continua Jakobson: «quando Majakovskij lavorava al poema L’uomo diceva: ‘voglio presentare semplicemente l’uomo, un autentico Ivan, che muova le braccia, mangi la minestra, e sia sentito direttamente». La «forza elementare» che è il byt, la «vita quotidiana», sottolinea Jakobson. Sentire e riconoscere nel «sé stesso» direttamente l’uomo. E nella prassi rivoluzionaria (non il congegno che attua violenze nuove e in esse si perpetua) concepire l’adeguato dispositivo che risarcisce e libera «i campi lesi dalla riduzione del vivente a quantità» che la poesia nomina, come dice Ingrao.
Restituire l’uomo al sé stesso che ciascuno è.
Così il suicidio di Majakovskij fu un sottrarre sé stesso all’ordigno inumano che nel 1930, in Russia, aveva sottratto il posto alla rivoluzione. Fu un affrancarsi da quell’apparecchio feroce che veniva alimentato dal costrutto di false parole.
Dopo la fucilazione di Gumilëv, 1921; la fine di Block, 1921, e di Chlebnikov, 1922; il suicidio di Esenin, 1925. Nel 1933, Marina Cvetaeva credeva di ravvisare in Majakovskij il poeta della rivoluzione e il poeta rivoluzionario. Questa coincidenza darebbe senso al gesto di Majakovskij. Cvetaeva e il 1917: la rivoluzione, la guerra civile e la poesia.
Dobbiamo ora a Caterina Graziadei la traduzione italiana e la cura esemplari del diario in versi di Cvetaeva, stilato tra il 2 marzo del 1917 e il 31 dicembre del 1920 (Il Campo dei cigni, edito da Nottetempo). A questo testo mirabile ho in animo di tornare ragionando, sulla scorta di Ingrao, di poesia come atto cognitivo per rapporto, nella fattispecie, al 1917.
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