L’opposizione del movimento Cinque Stelle al taglio del cosiddetto “reddito di cittadinanza” a 660 mila “occupabili” entro agosto 2023, e al cambio del nome disposto dal governo Meloni da gennaio 2024, parte da Napoli. In questa provincia, composta 92 comuni, ci sono tanti beneficiari quasi quanto quelli di Lombardia, Piemonte e Veneto (164.352 contro 165.382 famiglie). A Napoli i Cinque Stelle hanno avuto uno dei migliori risultati alle elezioni di settembre.

Domani, alle 17 nel parco Corto Maltese in via Hugo Pratt a Scampia, Giuseppe Conte terrà un comizio preceduto dalle testimonianze dei beneficiari. È stato annunciato un percorso «permanente» e in più tappe in diverse città, anche del Nord, contro la decisione di risparmiare 734 milioni sugli oltre 8 miliardi di euro annui necessari per finanziare la misura simbolo dei Cinque Stelle adottata quando erano al governo con la Lega nel 2018.

La decisione dell’esecutivo dell’estrema destra postfascista, contenuta nella legge di bilancio attualmente in discussione in parlamento, è stata presa in un momento in cui il rapporto Svimez 2022 ha previsto per l’anno prossimo l’aumento della povertà assoluta di 500 mila persone solo al Sud, 760 mila in tutto il paese. Le cause sono l’inflazione all’11,8%, il caro prezzi che incide sulle spese «incomprimibili» come la spesa o il riscaldamento, la precarizzazione della società che nessuno ha voluto modificare. «Il governo si mette a fare la guerra al reddito di cittadinanza, è una follia assurda» ha detto Conte.

A Napoli già si sta scaldando una polemica contro il presidente della regione Campania Vincenzo De Luca. Ad avviso dei consiglieri regionali dei Cinque Stelle Michele Cammarano, Vincenzo Ciampi e Gennaro Saiello, ha «sabotato» quella che il movimento al tempo di Di Maio aveva chiamato «la fase 2 del reddito di cittadinanza», cioè le «politiche attive del lavoro» e in particolare i «navigator». Nelle intenzioni dell’ex presidente dell’Anpal Mimmo Parisi (nominato dal partito di Conte) avrebbero dovuto rappresentare il primo livello della «presa in carico» dei beneficiari in vista della loro messa al lavoro, anche con lavori socialmente utili gratuiti fino a 16 ore a settimana per 18 mesi. «Su questo punto Vincenzo De Luca e Giorgia Meloni giocano la stessa partita sulla pelle dei cittadini. Si preferisce ignorare le difficoltà di chi ha meno per colpire una forza politica» sostengono i consiglieri pentastellati. De Luca ha certamente posto molti ostacoli alla misura di Workfare ideata dai Cinque Stelle, a cominciare dai navigator, ma non ha tutte le responsabilità. Andrebbe riconosciuto il fatto che De Luca le condivide con i governi di Conte, con quello di Draghi, e con tutti gli altri presidenti di regione.

Nessuno, anche a causa della pandemia, ha compiuto seri passi per completare la transizione verso quella modernizzazione reazionaria dello Stato sociale rappresentata dalle politiche neoliberali dell’occupazione precaria e povera collegate a sussidi come il «reddito di cittadinanza». Per farlo avrebbero dovuto, ad esempio, cambiare la norma costituzionale che mette «in concorrenza» lo Stato con le regioni.

Anche questo aspetto renderà impossibile l’impegno della neo-ministra del lavoro Calderone a occupare, con corsi di formazione e lavori socialmente utili, gli «occupabili» ai quali intende togliere il sussidio ad agosto. Presto o tardi il governo Meloni si troverà a sbattere la testa contro il muro dove si sono fermati Conte, e i suoi ex alleati del Pd (era contrario al «reddito» nel 2018). E allora le responsabilità saranno scaricate, ancora una volta, sui beneficiari del «reddito».

Ciò che sfugge all’opposizione contro la scellerata decisione di svuotare (non abolire) il «reddito di cittadinanza» è un aspetto decisivo. In un paese che affronta la seconda crisi in tre anni, e dove il lavoro non c’è, e se c’è è povero, il «reddito» funziona se è tanto esteso (oggi raggiunge solo il 44% dei «poveri assoluti») quanto il più possibile incondizionato. Una sinistra non subalterna al populismo ripartirebbe da qui.