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Il Sussidistan delle imprese fa crescere solo la disoccupazione

Il Sussidistan delle imprese fa crescere solo la disoccupazioneAssemblea generale di Confindustria – Ansa

Disuguaglianze Bisognerebbe indagare su che fine fanno i profitti e capire perché rendita finanziaria e immobiliare superano, ormai da tempo, l’insieme di salari e stipendi

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 20 luglio 2021

In questo anno e mezzo le aziende italiane hanno accumulato oltre 100 miliardi (dati Istat). Un tasso di risparmio senza precedenti. Soldi sottratti agli investimenti produttivi in attesa di tempi migliori o, in molti casi, dirottati verso la finanza e beni immobili. Non c’è una correlazione automatica, ma è strano il fatto che l’ammontare dei risparmi sia quasi pari alla somma erogata tramite i decreti per ristori e sostegni.

Che le imprese italiane siano super sussidiate è un dato difficilmente contestabile.

Da vent’anni a questa parte, per non andare troppo a ritroso, alle imprese sono stati elargiti migliaia di miliardi sotto forma di incentivi, decontribuzioni e defiscalizzazioni. Una montagna di denaro pubblico.

Persino le imprese dannose per l’ambiente ogni anno ricevono dallo Stato ben dieci miliardi di sussidi. Molte altre prosperano grazie ad appalti, concessioni e convenzioni con il pubblico (nel campo dell’edilizia, dei rifiuti, dei trasporti, della sanità…).

Carlo Bonomi, presidente di Confindustria, parlando di Sussidistan, ha proprio sbagliato indirizzo. E’ difficile rimuovere la dimensione imponente degli aiuti, diretti e indiretti, dello Stato al mondo imprenditoriale. Aiuti che hanno raggiunto l’apice in questo biennio.

Il Sussidistan è un paese ben conosciuto ai nostri imprenditori. Bisognerebbe piuttosto indagare più a fondo sulla destinazione dei profitti e riflettere sui motivi per cui l’ammontare annuo della rendita finanziaria e immobiliare supera, ormai da tempo, l’insieme di salari e stipendi. I profitti che si trasformano in rendita spiegano il declino della manifattura italiana molto meglio di tante analisi.

La pandemia, dunque, ci restituisce un paese più fragile, diviso ed ineguale. Il debito pubblico è schizzato a livelli mai raggiunti prima. Il benessere dei cittadini è diminuito, salvo che per una ristretta minoranza. La flessibilità del lavoro si è tradotta in precarietà e in perdita di potere contrattuale e di reddito. La disoccupazione giovanile e femminile si aggrava sempre di più. Si è accentuata la distanza tra ricchi e poveri, come quella tra ceto medio e fasce più benestanti.

Il virus, che ancora ci tormenta, sta scavando nelle disuguaglianze e nelle contraddizioni del nostro paese, ma molti commentatori sprizzano ottimismo sulla ripresa in atto e sulla spinta che il Pnrr sta per dare alla crescita economica. Cercano di nascondere o minimizzare il dramma dei licenziamenti, la mancanza di lavoro, le disuguaglianze sociali e territoriali, l’emergenza ambientale.

La ricetta è sempre la stessa: la crescita risolverà tutti i problemi e ne deriverà benessere per l’intera società. Il dubbio che viene, però, sulla base dell’esperienza e dell’evidenza, è che, nell’era della finanziarizzazione dell’economia e dell’algoritmo, le ingiustizie e le disuguaglianze crescenti siano diventate la condizione stessa dell’accumulazione capitalistica. Una politica, che ancora una volta mettesse l’impresa e non il lavoro al centro dello sviluppo, sarebbe un boomerang per la sostenibilità sociale ed ambientale.

Vi sono segnali ben visibili in questo senso.

Le entrate Irpef del 2020 sono aumentate di ben 17 miliardi rispetto al 2019. Una pressione fiscale che grava sulle fasce di reddito medio – basso. Intanto i capitani d’impresa versano sempre meno all’erario.

Banca d’Italia, inoltre, ci informa che il 55 per cento dei precari e dei lavoratori poveri (working poors) hanno visto diminuire il proprio reddito ed il 60 per cento di lavoratori autonomi vive una condizione economica di difficoltà. Insomma, un quadro squilibrato, che dovrebbe spostare decisamente l’azione di governo sul lavoro, sulla sua valorizzazione, su una redistribuzione più equa.

Il presidente Mario Draghi, invece, ha di recente respinto l’ipotesi di una pur minima revisione delle imposte di successione. «Non è il momento di prendere ma di dare», ha detto. Eppure, in questo orribile 2020, il gettito delle tasse sui trasferimenti ereditari si è dimezzato.

Trasferimenti per un valore complessivo di circa 200 miliardi di euro, nel 2020 hanno portato nelle casse statali la metà (circa 200 milioni) di quanto era stato incassato l’anno precedente. I ricchi conoscono bene le scappatoie legali (utilizzando, ad esempio, fittizie società di capitale) per eludere quel poco che dovrebbero dare. Non è il momento di prendere, ma resta vergognoso che eredi straricchi paghino tasse simili ad un obolo di beneficenza.

La riforma fiscale è uno dei pochi strumenti che abbiamo per tentare di raddrizzare il mondo alla rovescia in cui viviamo. Sarebbe un grave errore procedere con ritocchi superficiali e rinunciare a fare della progressività e della capacità contributiva il punto focale e qualificante del sistema fiscale, così come prevede la Costituzione.

Tra la narrazione fideistica sulla crescita e le difficoltà quotidiane della gente comune si apre per la sinistra uno spazio politico enorme. Non resta che occuparlo.

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