Il suicidio di Israele è anche il nostro
A un anno dal 7 ottobre la parola che occupa cervello e anima è “orrore”. Il grido di Kurtz, alla fine di Cuore di tenebra, ripetuto da Marlon Brando in Apocalypse Now. Conrad denunciava, alla fine dell’800, la violenza del colonialismo inglese, Coppola, alla fine degli anni ’70 del ‘900, quella dell’imperialismo americano. In mezzo due guerre mondiali, l’atomica. Un secolo carico di “orrore”.
Ma non è la stessa cosa che ritorna in questo nuovo millennio.
Capisco che giovani palestinesi e amici dei palestinesi esprimano rabbia per i massacri di innocenti. Ma la violenza contro la violenza del potere è un errore. Un errore ancora più grave scambiare per un atto di “resistenza” il pogrom spietato agito da Hamas un anno fa. Contro molte famiglie ebree che erano per la pace e l’incontro con i palestinesi.
L’”orrore” qui si carica dei significati più disperanti.
I capi di Hamas hanno tradito e stravolto le ragioni del popolo che dicono di voler difendere, scatenando scientemente la violenza senza limiti di Israele.
«La guerra – ha scritto su La Stampa lo scrittore ebreo Roy Chen – non ci è caduta addosso dal cielo. È opera di leader estremisti da entrambe le parti, di politici megalomani che si atteggiano a messaggeri di Dio (…) disposti a sacrificare il loro popolo per scopi personali». E ancora: «Non si può riparare un’ingiustizia con un’altra ingiustizia. Lo rammento ai palestinesi che vogliono, giustamente, correggere l’ingiustizia storica subita per mano di Israele. E lo rammento agli ebrei israeliani che dopo la Shoah ambivano a offrire al mondo standard morali nuovi, umani. A giudicare da quello che succede in questo momento storico, stanno fallendo».
Ma ha senso parlare di un “fallimento” di Israele, quando la “geometrica potenza” di Netanyahu, con l’ambiguo appoggio degli Usa e di tanta parte dell’occidente, sta eliminando con bombe e stragi molti nemici? E promette un “nuovo ordine” in Medio Oriente?
Lo afferma, in un libro appena uscito (Il suicidio di Israele, Laterza, ottobre 2024) Anna Foa. E potrei finire qui, consigliandone la lettura.
Aggiungo un pensiero. Il “fallimento” di Israele è disegnato – semplificando all’estremo una vicenda molto complessa – dalla soluzione di una contraddizione tra chiusura identitaria e apertura universalistica che attraversa tutta la storia e la cultura ebraica, e quella di Israele. Col potere di Netanyahu, “laico” di destra, rischia di affermarsi la visione religiosa integralista e suprematista.
Questo “fallimento” è simbolo e sintomo di una catastrofe per tutto l’occidente “democratico”, che dall’universalismo anche di origine ebraica ha avuto origine. Qualcosa che riguarda da vicino la sinistra, orfana di una visione del mondo dopo la fine del “socialismo realizzato”.
Ricordiamo che Marx era nipote di due rabbini, che gran parte del gruppo dirigente bolscevico (e forse lo stesso Lenin) era di origini ebraiche, e che Stalin – il quale favorì decisamente la nascita dello Stato di Israele – fu anche responsabile di crudeli persecuzioni antisemite. È una storia tremenda, che non tollera semplificazioni.
Tommaso Di Francesco, nell’inserto a un anno dal 7 ottobre realizzato da questo giornale, citando i versi di Mahmud Darwish («Abbiamo un paese che è di parole/ E tu parla, ch’io possa fondare la mia strada su pietra di pietra…») ha indicato nella scrittura palestinese «l’arma più resistente». Un capovolgimento simbolico rispetto al popolo che, secondo Heinrich Heyne, nei secoli della diaspora ha avuto nella Torah una «patria portatile» che ha influenzato il mondo.
E un libro aperto, ricco di poesia, non è l’unica patria desiderabile?
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