Il sogno eternizzato nella chiave del ritorno
Israele/Palestina Lo capii da Munther Amira nel campo profughi di Aida: parlava della «trappola» che era stata la trasformazione delle povere tende del ’48 prima in rifugi con il tetto di latta, poi in case di cemento, ammucchiate l’una sull’altra – ma alcune anche belle, diceva. Non era rimasto che questo, alla sua gente: la dignità di rifugiati e il sogno «legale» del ritorno
Israele/Palestina Lo capii da Munther Amira nel campo profughi di Aida: parlava della «trappola» che era stata la trasformazione delle povere tende del ’48 prima in rifugi con il tetto di latta, poi in case di cemento, ammucchiate l’una sull’altra – ma alcune anche belle, diceva. Non era rimasto che questo, alla sua gente: la dignità di rifugiati e il sogno «legale» del ritorno
Una famiglia di profughi, a Betlemme, a Natale. Forse vi ricorda qualcosa. Ma qui tutto è più feroce e irrazionale che ai tempi di Erode e dei Romani quando, secondo il vangelo di Matteo, Giuseppe «levatosi, prese il bambino e sua madre e di notte partì per l’Egitto», per sfuggire alla strage degli innocenti.
Qui i profughi sono eternamente tali, sono qui dal 1948: proprio perché in Egitto non ci sono voluti andare. Perché in ogni famiglia, di generazione in generazione, hanno tramandato la speranza e il suo simbolo, la chiave del ritorno alle case da cui furono cacciati già durante la Nakba. Prima da altri profughi: gli ebrei dall’Europa che non li voleva, nel dopoguerra.
Poi via via nei decenni, e massicciamente dopo gli accordi di Oslo (1993-95), da chiunque dal mondo della diaspora ebraica volesse trasferirsi negli insediamenti coloniali sempre più enormi costruiti dalle imprese edilizie israeliane con il sostegno economico e militare dello stato di Israele, che hanno i nomi di Dio per marketing immobiliare, l’occupazione e i muri per la feroce normalità delle usurpazioni.
ECCOLA, la famiglia di Betlemme. Quella di Munther Amira, che hanno da poco arrestato. Con violenza, come sempre. Un’irruzione in casa sua, nel campo profughi di Aida, vicino a Betlemme, alle tre del mattino. Lo hanno picchiato, mentre chiudevano sua moglie e i suoi figli in una stanza. Lo hanno trascinato in strada, legato e bendato.
Ma prima hanno preso a coltellate la maglietta di un suo figlio adolescente, per lacerare la mappa della Palestina che ci era stampata sopra. Nel frammento di video che qualcuno è riuscito a girare e diffondere si sente la voce della figlia piccola, limpida. Grida al suo papà che gli vuole bene. Nient’altro.
Proprio da Munther, presidente del Centro per la Gioventù di Aida, attivista del Popular Struggle Coordination Committee (resistenti nonviolenti), hanno imparato queste cose i molti italiani che negli anni hanno fatto un «viaggio di conoscenza» in Palestina, ad esempio con AssopacePalestina.
È lui che accoglieva i visitatori sotto l’arco che immette nel campo, sormontato dalla grande chiave che lui stesso aveva forgiato: «Perché nessuno dimentichi la promessa del ritorno», spiegava. Lo ricordo vividamente, mentre illustrava il muro che porta iscritti i nomi dei 600 bambini trucidati a Gaza, su 2.600 vittime civili complessive, nel 2014. C’era nella sua voce e nel suo sguardo una malinconia di cui mi stupiva la luce.
Allora ne capii solo la sostanza tragica: parlava della «trappola» che era stata la trasformazione delle povere tende del ’48 prima in rifugi con il tetto di latta, poi in case di cemento, ammucchiate l’una sull’altra – ma alcune anche belle, diceva. Non era rimasto che questo, alla sua gente: la dignità di rifugiati e il sogno «legale» del ritorno. Eppure erano tanti i lavoratori palestinesi che si guadagnavano la vita e un po’ di benessere costruendo le case dei coloni – e il loro annientamento civile. Proprio per questo Munther aveva forgiato la grande chiave, perché il sogno non fosse dimenticato.
Ma la sostanza dei sogni non è diversa da quella delle idee, come pace e giustizia. E non è diversa da quella dello spirito, che soffia dove vuole, e non dove stanno i suoi templi. Ecco un aspetto dell’apocalisse, la «rivelazione», oggi in corso a Gaza. Lo ha intravisto Raniero La Valle: se Israele è lo «Stato-nazione del popolo ebraico», allora «per i palestinesi non c’è posto se non in quanto privati dei diritti e soggiogati, e siccome questo non è indefinitamente possibile, devono essere espulsi o indotti o costretti ad andarsene. La guerra di Gaza è un momento della realizzazione politica, cioè effettiva, di questo modello giuridico» (Costituenteterra.it, 21 dicembre).
QUESTO ERA il non detto negli occhi di Munther. Ora vedo che era più che malinconia. Quell’uomo nobile era letteralmente crocefisso al paradosso di un sogno eternizzato nel cemento – e svuotato di spirito profetico. Ma che cos’è lo spirito se non è trasvalutazione della sostanza tragica? E perché il Nazareno, chiamato a leggere un passo del profeta Isaia (Luca 4.18-19) lo tronca là dove l’annuncio di liberazione degli oppressi, che inaugura «l’anno di grazia», si fa annuncio della «vendetta di Dio»?
Nel 1950 l’Assemblea generale dell’Onu approvò la risoluzione 377, «Uniting for Peace», secondo la quale, se il Consiglio di sicurezza non è in grado di mantenere la pace e la sicurezza internazionali, potrebbe essere l’Assemblea generale ad assumere un ruolo di supplenza e a intervenire. Certo, solo il Consiglio di sicurezza può imporre «obblighi giuridici».
Ma lo vediamo: gli obblighi giuridici non significano nulla se le potenze che decidono li vanificano coi loro veti. Invece nel nome dell’«unità per la pace» l’enorme maggioranza degli stati che hanno votato per il cessate il fuoco (e sottrarrebbero allo stato ebraico autorità esclusiva nella gestione del futuro) acquisterebbero alle idee di pace e di giustizia la forza della legittimità. Come un coro immenso, una polifonia che ridarebbe voce allo spirito, oggi afono.
C’era luce e non solo malinconia nello sguardo di Munther Amira. Ora che gli sgherri di Erode Antipa lo hanno messo in catene, forse vedo il significato di quella luce, dove la disperazione si trasvalutava in speranza – sogno, legge, spirito. Non ci resta che pregare, ciascuno a suo modo.
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